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Libro, quello in disamina, dal titolo variegato, persino dispersivo. In realtà compatta in un’unica connotazione gli elementi che, nel loro musivo aggregarsi, pagina dopo pagina, descrivono la vissuta, esternata esperienza d’un amore a tutto tondo.

È una silloge che raduna prose poetiche ed appunto pensieri, nella loro versione diaristica o più propriamente narrativa. Nel doppio taglio linguistico: italiano, nella prima metà dell’opera, ed inglese nella seconda.

L’autrice è una moldava, ammirevole per quanto, nel libro, ci dice di essere, denotando una grandezza d’animo encomiabile: ha adottato due piccolissimi connazionali, orfani di entrambi i genitori, Liuba e Vasile, maschio e femmina, che altrimenti sarebbero morti di stenti, quando avevano rispettivamente sette e nove anni.

Al di là di ciò la raccolta esplicita, direi, un sano solipsismo. Una sorta d’istigazione al contrario, intesa cioè in senso bonario, induce ad amare in tutti i sensi. È la spinta deducibile da un costante porsi in prima persona. Pertinace invito ad amare la miriade di cose belle che ci circondano. Ad amare le persone. Ad amarsi. E ad amare Dio. In Lui sperare, credere, nutrendo una fiducia non meramente escatologica bensì direttamente fruttuosa nel nostro vivere terreno.

Qua e là risaltano una sequela di disegnini della stessa autrice. Bozzetti simbolici, quasi sempre propositivi di una duplice icona. Preferenziale è l’allegoria del volto umano. Ne emerge un quadro antropocentrico che impressiona. Talora l’effetto è inquietante. In ogni faccia è leggibile l’espressione di una tristezza e di una malinconia, moti esplicitamente denunciati dall’autrice nella parte letteraria, tali da avvallare la caparbia volontà di vivere, coriacea, che la smuove nella sua prima intenzione letteraria, oltre ogni quotidiana difficoltà.

Recensione
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