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Quest’ulteriore pubblicazione di Antonia Izzi Rufo, una raccolta di una trentina di componimenti in poesia, testo a fronte in greco, suggella non già una neoformazione estetico-poetica, bensì una conferma di timbro e di emozioni. È superflua ogni dichiarazione sulle qualità della poetessa, ma potremmo dire, in maniera più estesa, della scrittrice, in quanto autrice a tutto tondo. Considerata la sua collaudata naturistica e/o umanistica argomentazione, nonché le ariose, distensive, rilassanti evoluzioni dell’estrosità, ogni apprezzamento circa il relativo stile, nella circostanza dichiaratamente poetico, credo sia scontato in partenza. Tanto di positivo è stato detto, non solo dallo scrivente ma, e probabilmente con maggiore incisività di analisi, da altri recensori.

Il presente contesto mette in risalto, forse al di là d’altre sue pubblicazioni, una tavolozza di variegati colori, che di per se stessi implicano una metafora incastonata nella struttura della Natura, intesa come materica manifestazione delle originarie bellezze che spesso, in quanto fin troppo palesemente intuibili, non sono prese in dovuta considerazione dai poeti. Vedansi: «[…] | sorridi a quel giallo | tra il grigio | sui monti coperti | di blu | alle nuvole incerte | d’un cielo | che mira al sereno | ai colori caldi | d’autunno», in Ci sono momenti, p. 28; ed oltre: «Emozioni | nell’animo accese | di rosa | la vita dipinse | d’azzurro», cfr. Ma Eros, p. 36.

I "colori caldi" della poetessa isernina dipingono e nel contempo "scaldano" proprio a puntino, direi magistralmente ad hoc, le «carezze di brezza», gli «applausi d’ali» come pure quel divinizzante «silenzio di luce» (cfr. Carezze di brezza, di p. 38) che, a mio modesto parere, definiscono una volta ancora, anzi più che in precedenza, una smagliante scrittura, evocata dalle insospettabili pieghe d’un’anima appagatissima delle risonanze misteriche rubate alle astrattezze cosmiche, le più elementari, quotidianamente percepite.

Sulla versione in greco non mi vorrei pronunciare. Non mi sento all’altezza di un’incombenza del genere.

Recensione
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