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I cani
non fanno colazione
Gabriele Astolfi (premio San Maurelio
2011 per la narrativa) è nella scena letteraria dal 2003, ogni volta con
pubblicazioni di narrativa, soprattutto nella dimensione più ampia del romanzo.
Nel 2007 e poi nel 2009 sono anche usciti i suoi primi racconti. Ed è proprio da
allora che ha iniziato ad approfondire l’argomentazione sulla vita del ‘cane’.
Ho detto approfondire perché già il cane era stato più o meno presente nelle
precedenti pubblicazioni. La raccolta del 2009 (… andremo ancora a giocare
– Giraldi Editore) è una sorta d’Antologia di Spoon River in versione
animalesca, imperniata sul cimitero per animali d’affezione (il ‘Riposo di
Snoopy’ in quel di Grizzana Morandi – BO).
Quest’ultimo romanzo, I cani
non fanno colazione, nella scia di continuità che lega appunto l’autore al
filo rosso del cane, assomiglia molto al romanzo L’uomo e il cane di
Carlo Cassola (Rizzoli Editore, 1977). Però in questo di Astolfi v’è addirittura
una trama più ampia, che spazia in un individuale canino in maniera pressoché
esaustiva. Soprattutto, a differenza del famoso romanzo di Cassola,
l’impostazione del narratore è binaria, viaggiando sulle traversine d’un doppio
Io Narrante, contemporaneamente oggettivo e soggettivo, alternando, in maniera
perfetta (senz’alcuna omissione di passaggi), la voce narrante dell’autore del
libro e quella del cane protagonista, che in realtà è una cagnetta di nome
Cleopatra, Cleo per gli amici. Sicché, a parte il Prologo, che è già
l’incipiente espressione del narrare nella versione cagnesca, l’eroina Cleopatra
della situazione inizia l’alterna trafila del raccontare di sé e del mondo che
la circonda. E così, come apre alla lettura, pure chiude, dominando sulla
varietà del narrato. È perciò un Io Narrante che si snoda prevalentemente
nell’interiorità del cane, esternando emozioni, sogni e desideri oserei dire più
puntuali che nella psiche d’un essere umano. Nella modalità, soprattutto, d’una
spiccata ironia, dote primaria dello scrivere di Gabriele Astolfi, che diviene,
implicitamente, dote caratteriale dell’autrice in primis: Cleo.
Naturalmente, nel contesto è il
cane ad essere osannato, a discapito dell’uomo. Sì, perché (e ne convengo in
pieno) «L’uomo non è affidabile […]. Il cane lo è. Abbaia quando ha paura,
scodinzola quando è felice, guaisce quando soffre, lecca le persone che ama. È
la quintessenza dell’affidabilità, della trasparenza. […] L’uomo no, è un libro
chiuso. E se lo si apre, è scritto in una lingua incomprensibile. Quando l’uomo
mostra i denti […] non sai se è per ridere […] o se è irritato, o magari furioso
[… possedendo] la mimica facciale del bipede più falso del pianeta», cfr. p. 27.
Con eloquente riconoscenza,
nonostante tutto e fortunatamente, nell’evoluzione della buona propensione
dell’uomo a considerare l’animale domestico (quando voglia crederci e comunque
con un buon margine di beneficio d’inventario) come facente parte del nucleo
familiare, il cane-autore ammette che nei tempi passati l’animale casalingo,
fosse cane o gatto, era considerato nulla più che uno schiavo assoggettato ad un
padrone, anzi ad una famiglia di padroni; mentre oggigiorno, in linea di
massima, è considerato come un allargamento della stessa famiglia. Sono precise
osservazioni di Cleo. Talché la cagnetta può pregiarsi di far parte della
famiglia adottiva costituendo l’ulteriore figlia di quelli che una volta
sarebbero stati i padroni e l’ulteriore sorella della relativa prole.
Condividendone l’agio del tetto comune, anziché starsene fuori in un’isolata
cuccia, fredda d’inverno e torrida d’estate, a condurre una mezza vita da
eremita, magari denutrita e bastonata.
Un libro scritto come si conviene
ad un vero, incallito scrittore, che sa coinvolgere in maniera convincente il
suo potenziale fruitore. E che, di più, lo affabula come stesse leggendo
qualcosa di particolarmente originale ed intensamente umano. Sembra un paradosso
che parlando d’un cane si tiri in ballo l’umanità, ma è un’osservazione
assolutamente vera. Anzi, per le implicazioni emozionali che ne provengono,
l’essere umano potrebbe persino vergognarsi di voler credere d’essere il
migliore, eticamente parlando.
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Recensione |
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