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La Gilda
Sulla
scia spumosa d’una programmatica fantasia ben attagliata alla dimensione del
narrare romanzesco, analogamente alla sua recentissima opera prima, Il tesoro
di San Leo (Arstudio C, Portomaggiore – FE –, novembre 2011), Franco Mari,
propone una colorita trama dal carattere storico ed esistenzialista.
Sotto il primo aspetto, che lega storicamente la vicenda narrata, emerge lo
scenario della seconda guerra mondiale, quale elemento medio dell’epoca di
riferimento.
Per quel che
concerne, invece, il secondo aspetto, filosofico, l’autore ci presenta la
casuale, tanto quanto causale, esperienza d’una giovane, sfortunata donna
ferrarese, d’estrazione contadina, certa Attilia, che, nel contingente precario
vivere provocato dall’assetto istituzionale del regime fascista, vedendosi
improvvisamente catapultata nella vita, dapprima romana e poi milanese, delle
case di tolleranza, cambiando nome, oltreché vita, assumendo quello appunto di
Gilda, riesce a fare, come si dice, di necessità
virtù. Per quanto la virtù sia, nella fattispecie, solamente questione d’un
molto opinabile punto di vista.
La
protagonista, assieme a tante altre maschere della situazione (Mora, Chichina,
Abissina, Vedova, Aldina, Alberta, Adua, Bolognese, Alfa, Rossa, Albonea,
Verdiana…) donne tutte costrette a cambiare identità (un po’ per non farsi
troppo facilmente riconoscere ed un po’ per procurarsi un’apparenza più
appetibile ai potenziali utenti del loro corpo), pur essendo tra le più giovani
(appena trentenne) riesce, a seguito della disgrazia della morte della tenutaria
del casino romano, a capitalizzare, anche nel senso venale della parola,
l’evenienza. E nel breve tempo d’un quinquennio, o giù di lì, riesce a mettere
da parte un capitale non indifferente, acquisendo altresì autorità, socialmente
parlando. Ma la fortuna, così come arriva, presto sfugge di mano. E La Gilda,
azzerato, anche per sua scelta di vita, quanto messo da parte, improvvisamente,
superando una fortissima tentazione di suicidio, cambia radicalmente vita. In
pratica facendo tabula rasa del suo passato e ripartendo da zero. Senza darsi
definitivamente per vinta.
Ed
una pseudo-maternità (per Vittorio, figlio non suo – della defunta tenutaria –
ed autistico), affiancata ad un amore nient’affatto disinteressato, anzi
truffaldino (il bello e seducente Raimondo), mettendola in contatto con le
inconsuete sfumature del mondo ecclesiastico, rende al contesto un continuum
d’imprevedibile.
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Recensione |
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