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Di Canzio Vandelli si può ben dire che sia un letterato polivalente,
narratore e lessicografo. A Ferrara (sua città natale, per quanto ora risieda
a Genova) ha infatti dedicato un romanzo, nel 1998, ed una più recente, 2001,
Grammatica di Ferrarese moderno.
Nelle attuali favole, oggetto del libro in disamina, si osserva un
originale approccio, un modus plusvalente, che apporta novità al tradizionale
senso ultimo, cioè a quella che si definisce “morale” della favola, in quanto
«non vede necessariamente nel lieto fine la morale da seguire» (dalla
premessa). Nella stessa premessa Vandelli avverte il lettore che, appunto,
guarda ad una morale di chiusura diversa, perciò non escludendola
categoricamente, solo ridimensionandola: «le Nuove “Vecchie Favole” non vedono
nel male una presenza satanica da scacciare con ogni mezzo […] bensì una
quotidianità niente affatto rara o predestinata alla sconfitta, da cui è
sufficiente o saggio guardarsene».
Sono dieci musivi pezzi di letteratura, tutti illustrati dallo
Scrittore, che sembrano differenziarsi – ma che nella realtà tipologica della
narrativa invece si connotano in un’unica classificazione fiabesca – in
poemetto (l’unico realmente tale), Alessio e Russalca; vera e
propria fiaba o favola, anche da Vandelli così definite, sono L’Orologio a
Cucù e Il Serpente e
la Mangusta;
allegoria, La Vaporiera;
aneddoto, Tobia e le Mosche; satira, Gli Zoccoloni; saga, La Macchina del Tempo;
epopea, Gli Zingari; novella, I Barboni; infine racconto, Lo
Scrivano d’Oro.
Ogni fiaba è dedicata ad un favolista di chiara fama: a Krylov, ad
Andersen, ad Esopo, ai nostri Rodari e quindi Collodi e De Amicis, a Perrault,
ai fratelli Grimm, a Puškin, a Palacio Valdés.
Ferme restando le risapute, canoniche caratteristiche della fiaba,
il linguaggio adottato dal Vandelli è raffinato; autorevole nella sua pur
chiara tenuta strutturale, grammaticale e sintattica; piacevole; ma
soprattutto capace di rendere emozionanti i passi più significativi e
allegorici dei testi.
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Recensione |
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