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Le
stagioni della memoria
Luigi Bosi, medico in
pensione, quanto a pubblicazioni ha già al suo attivo almeno un paio di bei
romanzi (Dove finisce il cielo, 2000; Una manciata di niente,
2007).
È un narratore, Luigi
Bosi, che sa esprimersi bene sia nel breve e sia nel lungo respiro. Qualora si
sia espresso nella performance più lunga del raccontare, ha dimostrato di
saperci fare, scrivendo romanzi autentici. Soprattutto ha voluto prediligere
tematiche d’interesse etnografico. Questa la sua vera carta vincente.
L’ultima
pubblicazione d’ambientazione contadinesca, a conferma d’una dislocazione
provinciale, anche se più vicina a Ferrara rispetto alla già rispettosamente
decantata Comacchio, dove l’ambiente era logicamente marinaresco, dà ancora, e
senza smentita, una sferzante pennellata di concretezza storica. L’autore
attinge infatti da una realtà imbevuta di folclore, propria d’una precisa epoca
e d’uno specifico squarcio culturale definibile popolare, ricamato su una
puntuale cornice di dettagli colti in un loro cogente insieme. Mosaico di minimi
pezzetti finalizzati alla realizzazione d’un esaustivo collage d’analitica
pertinenza. Il lettore si trova in mano dei personaggi ed una loro struttura
ambientale d’appoggio in perfetta sintonia. Elementi in assoluta coincidenza con
la realtà temporale del narrato.
Ed è vero anche che,
in queste
stagioni della
memoria, v’è
una protagonista che invece di vestire panni umani è rivestita di genuina ed
incontaminata natura: ‘la campagna ferrarese’ («vera
“prima donna” di tutta la storia»,
c.f.r. p. 13, Premessa). Com’è vero del resto che il suo raccontare Comacchio
assumeva ad eroina la stessa Città lagunare. Lì erano le valli ed il microcosmo
dei pescatori a tenere impegnato il lettore; qui sono il suolo agreste ferrarese
ed i contadini (prima mezzadri e poi, grazie ad un colpo di fortuna, misterioso
quanto provvidenziale, coltivatori diretti) a ravvivarne la lettura.
Circa il
fattore-Storia, la ventina d’anni che grossomodo alimentano la trama nella sua
diretta e progressiva maturazione (1940-1960 ca) è arricchita da dei flahsback
che, spezzando quella che avrebbe potuto essere solo una mera possibilità di
monotonia dell’intreccio (ma che, nella riconducibilità visiva della lettura,
così non è!), allargano l’orbita temporale del romanzo. In maniera opportuna.
Intromettendo un epocale lasso alquanto affascinante per impatto sulla memoria
del fruitore (non certamente sul piano più propriamente civico ed umano). Parlo
del ventennio fascista, che, proprio nel suo presupposto di dilatazione,
impreziosisce il romanzo con stimoli di cui la ‘memoria’ non cessa mai d’essere
sazia (visto che è, come avverte il titolo, la memoria ad essere impressionata
nella pellicola dell’ipotetico film cui Luigi Bosi ci guida). Probabilmente
nella meditativa ricerca d’un’ulteriore consolidata conferma del blasfemo,
negletto rapporto di civiltà che il ‘ventennio’ ha significato. È eloquente
inserimento d’un racconto nel romanzo. Appendice piacevolissima, molto gradita.
Azzeccata per il paradossale contrapposto d’una frammentata conduzione e
d’un’unitaria coesione.
Ecco che, al di là
della terragna Ferrara, localizzata nel fondo cosiddetto della “Sterpata”, in
località Torre della Fossa, il personaggio Olindo Marchetti, sintonico alla sua
bella, variegata famiglia, quasi senza soluzione di continuo, sarà sostituito e
perciò superato, per importanza nella trama, dai figli Dante e Viler. Ma la
famiglia patriarcale rimarrà tale, unica. Nella grande famiglia, composta dai
nuclei familiari dei figli, a loro volta comprensivi delle relative mogli Irma e
Cleves, nonché delle loro discendenze, v’è una necessaria corrispondenza ed
alternanza anche nel ruolo, quasi comprimario a quello del capofamiglia di
turno, che lascia giusto spazio all’arzdóra, la conduttrice della casa,
vera regina del focolare. Un ruolo al femminile, necessariamente. Anche questo
domestico ruolo soggiace all’ineludibilità dinastica, al passaggio dal vecchio
al nuovo. Giungendo così ad un marcato svincolo, irreversibile, tra l’antico ed
il moderno (viene soppiantata la coltivazione della canapa in favore della
frutticoltura; vengono dismesse, e vendute, le mucche a tutto vantaggio delle
macchine agricole e di tanti altri più pratici presidi – di conseguenza è pur
vero che il bovaro rimane disoccupato).
Nella dicotomia
narrativa che consente l’innesto dell’esperienza fascista, la figura sui generis
di Aldo, fratello di Olindo, permette a sua volta l’elevazione (non proprio
etica, semmai squisitamente avventuristica) d’un parallelo protagonista,
arruolato nella milizia e che innalza la qualità della narrazione, proponendo
una fervida ripresa d’una commovente memoria.
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Recensione |
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