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Per Cristina Venturini il passo dalla narrativa alla poesia, nel
costante, progressivo passaggio con la medesima editrice ferrarese Este
Edition, si è completato proprio con quest’ultima pubblicazione: Male
dentro. Conati intermittenti di disgusto. In effetti, se nella seconda sua
opera intitolata Frantumi di verità (ancora 2007), che complementava
l’opera prima, Testimonianza (2006), la poesia s’intrufolava più o meno
in sordina, tra una serie di eloquenti note di riflessione, adesso il libro
riproposto è pienamente interpretato nel seno della poesia, dalla a alla zeta.
L’Autrice rimane ancorata alla tematica di fondo che l’ha
prepotentemente scossa, a partire dalla sofferenza e conseguente perdita della
madre, insidiata e sconfitta dal morbo di Parkinson, filo rosso che lega anche
le due precedenti pubblicazioni. Con l’evidente differenza che qui, in Male
dentro, l’argomentare della Venturini assume la veemente ironia che denuda
e, nella sostanza, condanna duramente i mille aspetti che costituiscono un
permeato, ulteriore, corollario ad un’altrimenti nota (per i suoi diretti e
più pubblicizzati elementi di cattiva funzione) malasanità. È il rapporto
umano, o quello che come tale dovrebbe sussistere, tra malato e personale
sanitario e parasanitario ad essere incriminato in primis. Spesso il
ricoverato è effettivamente trattato come un numero, o comunque come un qualcosa
d’altro da un essere umano particolarmente abbisognevole di aiuto. Lo si legge
soprattutto nei versi delle pagine da
32 a 35. Ma è altresì la mancanza di
discrezione della gente e dei media a fare arrabbiare la nostra autrice: lo si
evince dalle pagine da 51 a 52. Come al solito la Venturini non va per il
sottile. Esordisce con uno schiaffo al lettore, avvisandolo, nella lapidaria,
dedicatoria metafora dell’esergo dal doppio senso, di fare attenzione a non
essere presi per i fondelli, insomma di aprire bene gli occhi; e nel contempo,
e all’opposto, di badare a non essere, sia pure involontariamente, molesti
verso il prossimo: «Ad ogni annichilito / che non sa di esserlo».
Il tutto è scritto all’insegna d’una dichiarazione di risaputa,
intrecciata, inevitabile, condizionante ipocrisia. Nell’ammissione della
stessa Venturini («Dico tante di quelle bugie!!», p. 26) c’è già una finale
giustificazione che scagiona ognuno di noi: «La falsità effettivamente
contagia», p. 49.
Quanto all’esito poetico del libro, be’, non è niente male. Se si
considera che in prevalenza il costrutto è appositamente, volontariamente
posto sul dialogico, la struttura del verso sa in ogni caso estendersi ad
un’estetica elaborata su un diffuso gioco fonico basato sull’afflato ludico
del paragramma.
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Recensione |
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