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Questo particolare racconto-romanzo di poche pagine
«come ogni dono postumo – sostiene nell'introduzione Gianna Vancini –
commuove: è un regalo che abbatte la barriera che sta tra la vita e la morte».
Dal dramma La tragica storia del dottor Faust
di Christopher Marlowe (Canterbury 1564-Deptford 1593) al famosissimo
poematico Faust di Goethe (Francoforte sul Meno 1749-Weimar 1832) e
sino al Doctor Faustus di Thomas Mann (Lubecca 1875-Zurigo 1955),
romanzo che riscosse la sommatoria degli onori e dei meriti ascrivibili anche
ai predecessori, qui citati o non, v'è un nutrito repertorio d'omonime opere
che interessa le varie tipologie della letteratura e che annovera altrettanti
scrittori (Lessing, Grabbe, Heine, Lenau ecc.), non esclusa la realizzazione
librettistica, musicata (Gounod, Liszt, Berlioz, il nostro Arrigo Boito ed
altri ancora). Se proprio da Marlowe, precursore della letteratura faustiana,
ci perviene la mefistofelica solenne dichiarazione «Solamen miseris socios
habuisse doloris [è sollievo agli infelici spartire con altri i propri
dolori]» (ibidem, atto II), il nostro, ahimè, già da troppo tempo
defunto Aldo Luppi (Malmö, Svezia 1928–Ferrara 2001) coinvolge il lettore in
un'avvincente nuova avventura esistenziale, nel «procede[re] inarrestabile
[del]la sua corsa trascinando con sé chissà quanti altri pensieri di gente in
attesa di risposte», così come lo scorrere del fiume Po (p. 7),
talmente imperioso da essere persino dispersivo.
Aldo Luppi, che della sua vasta produzione
letteraria ebbe la soddisfazione di vedere rappresentate diverse opere
teatrali, quasi paradossalmente di un filone che per tradizione vanta
esperienze teatrali di successo ha voluto proporne una narrativa.
Consolidando, tra l'altro, la conferma del suo modulo di scrittura fondato
sulla costanza sequenziale di un identico numero di pagine, e finanche di
righe, per singolo capitolo (qui di quattro pagine). Con Nella pelle di un
altro, tra la permuta dell'anima con migliori, più esaltanti esperienze di
vita, in sintonia con la letteratura di pertinenza del Faust, ha preferito
l'originale percorso, tutto suo, del contratto di cessione di dieci anni di
vita contro il corrispettivo di un più semplicistico, e comunque disalienante,
cambio di persona, dando così alla serie faustiana un tocco d'esaustività,
corrispondente ad un'innovazione a quella ricerca del vivere quotidiano che da
che mondo è mondo vede l'uomo impegnato in un continuo, e sempre
insoddisfacente o inappagato, vagabondaggio nei meandri dell'io. Pur non
accantonando l'esatta, coincidente idea di «vero umorista di grande cultura»,
secondo la letterale indicazione data da Gian Pietro Testa (dall'introduzione),
è soprattutto necessario rammentare in che modo «i suoi messaggi obbligavano
alla riflessione ed erano, in fondo, prodotto di una disperata gioia», secondo
l'altrettanto significativa ammissione di un veterano della critica, Antonio
Caggiano (ibidem).
Doverosa è la domanda – sorge spontanea – da
rivolgere all'Autore. (Domanda potenziale in quanto ormai non più
proponibile). Ragione per cui la gireremo a noi medesimi: "Come mai, piuttosto
che attenersi ad una apparentemente scontata performance teatrale,
anche considerati i suoi brillanti precedenti, Luppi ha pensato ad una
versione narrativa stricto sensu dell'inequivocabile tipologia emula
della serie del Faust?".
Evidentemente
la sua scelta, narrativa piuttosto che teatrale, è da intravedersi in un
movente popolare. Un'apertura ad una moltitudine di utenti che altrimenti non
sussisterebbe. La scelta doveva essere di potere, volere – in ultima, sapere –
offrire una sua opzione letteraria così finemente razionale ad un pubblico
molto più vasto dello spettatore teatrale. Tenendo in debita considerazione
come un determinato testo scritto per il teatro abbia già esso stesso una
certa probabilità di non essere mai rappresentato. A priori la stessa
pubblicazione di un'opera teatrale si sa per certo che troverà scarsa lettura.
Sotto un aspetto prettamente tecnico, il nostro
scrittore sembrerebbe voler rendere ambigua la figura del demone tentatore,
mai stabilmente identificata. Se non fosse Mefistofele, Lucifero o Belzebù,
così come generalmente e variamente interpretato nelle parallele precedenti
proposizioni dei vari autori stranieri, non dovrebbe esserci dubbio che
l'entità personificata nel libro in disamina sia comunque simbolo del Male.
Magari un male minore, in quanto – cercando di dare implicita risposta ad
un'ipotizzabile questione sulla diversione del demone tentatore che ne
caratterizza la trama – Luppi probabilmente voleva porre, prima d'ogni altra
manifestazione, l'ambivalenza esclusivamente interiore, singola, individuale
che attanaglia l'essere umano, in concorrenza coll'emergente coscienza e che,
nella sua più interiore, indeterminata autocoscienza, alla fine rende l'uomo
vincente al di là delle sue debolezze, delle sue impudiche, e talora
depravate, immersioni in una vita che gli sia edonisticamente più consona. Ma
il risultato dimostrabile nella sua definitiva positività, che, di fatto, non
condanna l'uomo alla dannazione eterna, sarebbe motivo di grande attenzione
religiosa. Nell'originale narrazione di Luppi il finale dà ragione all'uomo
della sua dimensione reale e non di quella ulteriore, soggettivamente
ipotizzabile come diabolica alienazione, che in ogni caso andrebbe a ledere i
diritti, gli affetti, le aspettative dei suoi simili, specialmente, nello
specifico, dei familiari. In tale forma sofisticata il male già di per sé è
reso in una veste meno peccaminosa, maggiormente accettabile, eticamente
parlando.
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Recensione |
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