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Evidentemente, considerato sia il titolo della silloge poetica in disamina, sia le tre fotografie che ne supportano il contenuto letterario, dev’essere la bicicletta il mezzo ispiratore del giovane (appena ventenne) autore ferrarese, Matteo Bianchi. E perché no? La bicicletta, specie se condotta a misurate pedalate nel mezzo delle bellezze della natura, sa dare una mano a trovare quella giusta dimensione, bucolica ed insieme rasserenante, che crea un giusto equilibrio tra anima e corpo e che, in aggiunta, sa procurare un introverso stimolo artistico.

Il giovane poeta impone, nel contesto della sua raccolta, una rapsodica “estetica dei colori”. Una cromatica messinscena della parola. Pur esprimendo le antitesi dell’esistenza o dei concetti, il protagonista sa individuare l’armonia che la poesia, e solo essa, può esternare in una maniera del tutto particolare, lieve e ovattata, soft. Tanto che gli opposti talora non appaiono neppure tali.

Mentre i componimenti sono tutti senza titolo, le quattro sezioni che ne fanno da contenitore recano per titolo appunto i nomi di quattro esemplari colori: Grigio, Argento, Bianco e Nero.

Il passaggio dalla vita alla morte, dal vero al falso, dalla realtà all’irrealtà (questi sono i preponderanti limiti-ossimori che contornano i versi del libro) nel primo, diretto confronto tra il grigio e l’argento, pur essendo tra di loro direttamente evidente il rapporto d’una dimessa esistenza, adusa ad un melanconico meditare (in Grigio), che conduce ad una riflessione sulla madre (in Argento), v’è, nel medesimo argenteo timbro, un altrettale soffuso senso d’emersione che migliora lo stato del precedente grigiore («Per poco più d’un soffio | di brezza | quella quiete fu mia», p. 19), facendo da pendant al successivo livello cromatico bianco. Le sfumature che diversificano un colore dall’altro, in questa prima ipotesi, sono davvero minime. Ma, se nell’intenzione del poeta (lo scrive nell’epigrafe della terza sezione), quest’ultima tinta è la metafora d’un ciclo d’abulia che ne appanna temporaneamente la volontà, ed è una variante (non propriamente antitesi, anche se tale potrebbe essere pensata) dei due precedenti colori, costituendo un ulteriore, progressivo avanzamento rispetto ai due precedenti risvolti cromatici, di fatto cede il passo all’ultimo colore, nero, che assurge ad ossimoro per eccellenza. Palesemente, rispetto al precedente bianco; e, per evidente contrasto d’emozioni e di sentimenti, rispetto ai primi due più tenui, ma alquanto ambigui, colori. Anche qui, nella negra parte finale, ripescando la tetraggine della morte («Il rimbombo del buio | nella volta celeste | è il canto dei morti»), già apparsa in argento (tanto da far da continuo strascico ad un motivo ossimorico ben preciso), oltre alla contrapposizione s’intravede il perfezionamento dei precedenti passaggi malinconia-quiete-abulia nell’implicito eterno riposo intriso d’escatologica speranza, da un lato, e di compiutezza esistenziale dall’altro.

Questa raccolta di poesie, al di là della sua originale collocazione stilistica e concettuale, desta interesse per una coordinata, inusuale, collaborazione editoriale. L’impostazione che l’Editore ha voluto – non so se per esclusiva o condivisa (con l’autore) volontà – dei musivi frammenti della silloge fa sì che la visibilità strutturale della parola sposti il baricentro da un’ipotetica forma della strofa (ipotetica, in quanto l’autore, a parte qualche rima, sembrerebbe mosso dalla libertà, od almeno da una certa libertà) alla forma della pagina. In effetti, qualora nella pagina siano poste più composizioni poetiche, ognuna è predisposta, con rigorosa alternanza, con la centratura ora alla sinistra ora alla destra della medesima pagina. Il risultato è un plusvalore della resa estetica. E lo vedrei marginalmente catalogabile come interpretazione di un’evoluzione (in un senso ovviamente assai lato) della poesia visiva.

Recensione
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