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La maestrina ferrarese Cristina Venturini, trentacinquenne, grazie all’opera in disamina, da buona debuttante, si dimostra una scrittrice oculata, concettualmente perspicace, incisiva pur nella sua sinteticità linguistica. Soprattutto profondamente filosofa. L’intuitivo, molto istintivo e nel contempo assiomatico, esistenzialismo, che le è connaturato, le permette di ripercorrere, nelle svariate fenomeniche spigolature, la congerie di sensazioni, prevalentemente affettive e più genericamente emozionali, consequenziali al dolore – la vera sofferenza della malattia, quella che si sa in partenza che non può essere vinta. La sequela inarrestabile, fino all’ultimo atto terreno, dei patimenti della madre, in prima persona, affetta dal morbo di Parkinson, e dell’autrice, in quanto figlia, unica persona vicina alla malata, inscindibilmente attaccata, ha il salato e salace sapore d’un largo pianto liberatorio, da una parte. E, dall’altra, sa essere una lezione di modi, che, come una sferzante scudisciata, mette sul chi va là quanti non abbiano un minimo d’attenzione ai reali drammi che la vita casualmente distribuisce. Un po’ come chi vuole negare della storia le parentesi più disumane, che, comunque e purtroppo, fanno parte degli effettuali accadimenti, innegabilmente.

Tra la sarcastica metafora (cfr. soprattutto Il circo, pp. 10-11, e Ingegneria, p. 43) di paradossali situazioni d’incompresa anormalità e di un sofisticato "meccanismo-mecanicismo" umano, s’insinua una problematica molto meno sibillina, anzi affatto attuale. L’eutanasia, egregiamente messa in chiara luce da un’inquietante lettera della stessa Cristina a Terri, datata 31/3/05 (se ben ricordo si dovrebbe trattare di quella patita vertenza giuridico-legale che, originata negli Stati Uniti, ha fatto lacrimare, e meditare, l’intera umanità!), s’allarga, in un ormai fertilissimo terreno, in una concitata catena di interrogativi e succedanee, pagliative risposte. Da un’apertura psicologica preventiva (cfr. p. 27: «maturiamo pacatamente di vivere per morire»), la scrittrice ci conduce verso un idoneo, tanto quanto ideale, percorso di «improbabile e penosa auto-consolazione» (cfr. p. 29). Il tutto in vista di un morire ulteriormente indolore, una cosiddetta «auto-anestesia che potrebbe renderci i minuti un po’ meno lunghi» (cfr. p. 30).

In Illusione, pp. 36-37, c’è la definitiva fondatezza d’essere coi piedi per terra. Al massimo, noi uomini, potremmo «inebriarci con l’idea di non essere mai nati, non essere mai morti, la trovata suggestiva che non si discosta moltissimo dalla concezione cristiana». Se ci si pensa, è un’escatologia all’incontrario.

Recensione
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