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Il romanzo viaggi e ritorni di
Simone Andreotti rappresenta, per lui, un esordio in senso stretto, ed un
debutto in senso lato quanto al genere letterario.
L'originalità di questo cospicuo
romanzo, cospicuo per quantità e per qualità di scrittura, sta in almeno quattro
punti focali.
Prima di tutto (nel senso che è
un'osservazione che, nell'atto della lettura, s'affaccia d'acchito, fin
dall'incipit) la narrazione si presenta, facendosi viva e vivace in sole poche
righe, nella forma e nei virili colori del linguaggio giovanile. Un linguaggio
di tendenza, ricco talvolta di scurrili e nel contempo affettuosi insulti, le
cui tradizionali pacche sulle spalle tra amici divengono veri e propri cazzotti
allo stomaco. Ed è un linguaggio accompagnato da un fitto corollario di cenni a
canzoni moderne o a loro brani. Non per niente l'autore appartiene alla
categoria dei giovani scrittori: è un trentaquattrenne, non giovanissimo ma
comunque giovane. Si badi bene che si ravvisano, in ogni caso, espressioni di
parola dinamiche e frizzanti sì, ma perfettamente conformi alle regole
sintattiche e grammaticali.
Secondo, il romanzo è costruito
su un mosaico di riferimenti, diaristici, pur nell'invenzione d'una trama che
supera i limiti temporali del presente (dall'anno 2006 arriva fino al 2014), sia
intrecciati sia interpolati – e proprio qui sta un terzo risvolto del modulo
scrittorio di S. Andreotti: 'l'interpolazione'. L'intreccio non è il mero
intreccio che ne fa un testo purchessia: una trama, in genere, è sinonimo
appunto d'intreccio. In questo viaggi e ritorni quando si parla
d'intreccio si parla di musivo ed insieme sconnesso concatenamento delle parti
d'un puntellato, cementante diario.
Terzo (e perveniamo al suddetto
'elemento d'interpolazione'), il contenuto è estraneo anche ad un'unica ottica
strutturale di coerenza narrativa. Di fatto, nell'insieme vi sono intercalati
spezzoni (intere quote di diario) che presentano un dualismo nella prospezione
dell'io narrante. Pur assistendo alla preponderante versione di diario d'un
principale protagonista-narratore, ugualmente si assiste a parallele versioni di
fittizi diari scritti da un narratore-terzo, avulso alla compenetrazione del
singolo soggetto, accessorio interprete della farsa romanzesca. Sono diversi i
soggetti inclusi in tale referenzialità: tutti i personaggi eccetto il
protagonista principale. In poche parole, sono presenti due forme d'io narrante:
quella, principale, d'un presunto autore-interprete, eroe del romanzo; ed il
poliedrico cumulo dei co-interpreti, tutti gestualizzati e caratterizzati in un
univoco io, alterno all'io del principale narratore.
Quarto, ma non ultimo come
importanza critica, è l'originalissimo – probabilmente in assoluto –
topos
circa
il genere del romanzo. La trama ha per inequivocabile oggetto il rapporto
uomo-donna, soprattutto dal punto di vista sessuologico, non necessariamente
sessuale. Parliamo d'un romanzo in rosa (e fino a qui nulla da ridire!). Però è
un rosa al maschile, scritto, inteso ed interpretato da uno scrittore uomo
anziché donna, come solitamente il genere rosa implica.
Non faccio alcun cenno sulla
composita trama, immischiata di molteplici vicende, e non solo prevalentemente
amorose, però voglio sicuramente fare riferimento alla conclusione, sempre senza
nulla anticipare sulla trama, soltanto per dire che è stata pensata da maestro.
Tanto da spiazzare il lettore, che, una volta giunto alla soglia terminale della
narrazione, ormai non s'aspetterebbe altro che leggere la parola "fine". Ed
invece riesce a trovare motivo per un imprevisto, esaltante sussulto.
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Recensione |
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