Sollevato il
sipario sul “Teatro del giorno”, appare l’uomo incomunicabile dell’oggi, chiuso
nelle sue angosce, al di fuori del sole e della vita, in attesa dell’ “orribile
passo della morte” come tutte le cose di questo mondo, soggetto alla
ineluttabile legge del divenire: un’effimera esistenza, su cui non può che
gemere di rabbia e di dispetto. Anche la speranza del domani è vanificata dalla
miopia qualunquistica politica imperante.
Il sud è
indicato sul terreno delle ingiustizie, della mancanza di lavoro per i giovani,
per l’emigrazione forzata, per le numerose vedove bianche, e per tutti i mali
sociali che l’affliggono. Ecco il grido del disinganno del poeta che vede la sua
isola crocifissa dai bisogni, dai mali secolari, causa del suo acceso
scetticismo.
Filippo
Giordano si può oggi annoverare tra i meridionali più vibranti d’umanità e più
baciato dalla Musa per la vibrante consapevolezza della sua arte. La sua
espressività rende credibile ed accettabile il suo sentimento: soggettività ed
oggettività vengono a collimare nella funzione della poesia, che qui ha
l’ufficio di testimoniare l’universale doglianza d’una terra non meritevole
della miopia del mondo politico nostrano.
Nella poesia di
Giordano è condannato tutto ciò che è “debitore di molti uomini… costretti a
riempire | treni di valigie e di speranze… verso il Nord” per cui “troppe madri
piangono figli lontani”.
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