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In questa opera di Paolo Ruffilli impariamo molto della poetica di questo autore, originale e importante esponente della contemporanea scena letteraria italiana.

Il ritmo compatto, la forma dei testi della silloge e il concetto di un tempo perduto ma sempre attuale nell'affacciarsi al presente, sono elementi che si riscontrano nella ricca esperienza lirica di Ruffilli.

Nella prefazione al libro il grande poeta Giovanni Raboni parla di “tempo che non esiste per la poesia” indagando nell'origine concettuale di questa opera, quel termine di irreversibilità che Paolo Ruffilli ribalta grazie alla lirica, sovvertendo la “direzione” del dolore, rivisitandolo nella sua origine, prima che esso abbia compiuto il suo percorso; appunto, nel “romanzo famigliare” che compone l'autore a partire dalle foto che rincorrono a ritroso nel tempo persone che non sono più, si assiste a una conscia riproposizione del tema della perdita concepita da un scrittura solo apparentemente neutrale, all'insegna di quel distacco incisivo che permea in maniera caratteristica i testi di Paolo Ruffilli.

La sua lirica è tiepida, asciutta, elaborata quel tanto che basta a concepire una scrittura matura, in cui la distanza emotiva diventa registro di stile per evidenziare con forte introspezione una cronaca familiare fissata nella pagina come una istantanea fotografica.

In Ruffilli si palesano i minimi termini, i millesimi che da soli sanno rintracciare la storia, fissare un ritratto: “Quasi calvo, | un viso tondo | segnato da due baffi | folti e scuri. | Nella giacca | di fustagno, | con la striscia | di velluto nero | sul risvolto. | Il padre di mio padre.”

Una opera originale, contraddistinta da un poetica sostenuta da una grande padronanza di linguaggio e da una grande capacità narrativa.

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