| |
Gate, gate, gate
Maria Antonia Maso Borso ci offre una silloge di
particolare intensità espressiva, in cui il dialetto rappresenta il veicolo
attraverso il quale mantenere intatta una memoria che i tempi moderni
minacciano, incalzati troppo spesso da una imperativa, illusoria necessità, che
non prevede il ricordo.
È per via di uno sguardo, lo sguardo dell’esperienza, la
condivisione, sia pure per via del medesimo suolo calpestato, della medesima
terra e delle medesime mura che perimetrano il cammino di una vita, che
l’autrice, pur stigmatizzando o puntando l’indice, concede uno sguardo
compassionevole nei confronti della sua gente; gente che per
intermediazione della parola poetica diventa nostra, diventiamo noi.
E’ una poesia quindi plurale e in prima persona,
continuamente bilanciata tra memoria personale e memoria storica. Ma la storia
non è, come si può immaginare, la storia dei grandi eventi; è una storia fatta
di aneddoti, di detti popolari, di filastrocche e quotidiano come se autore e
lettori fossero tutti appartenenti ad una ideale famiglia allargata.
E’ quindi nel segno di una epica domestica che si può
inserire il canto di Maria Antonia Maso Borso, quasi che da emigranti che si
lasciano alle spalle una attesa tradita dal passato, la pagina bianca prima
della scrittura, salpando alla volta di un futuro pieno di nostalgia, quale può
considerarsi l’inchiostro stampato delle cartoline dalle Americhe, il senso
ultimo del proprio luogo nel tempo: “pochi stracci mischiati | dentro una
valigia | e via per il mondo in cerca | di fortuna in America, in Australia | senza
di timore di vento né di pioggia | perché tanto il destino fin da bimbi | è una
strega paziente che ci aspetta | sgrovigliandosi i nodi dei capelli”.
| |
 |
Recensione |
|