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Il verso di Giovanni Di Lena non
è un'uscita dalla prosa della vita bensì la condensa che provoca su carta uno
sguardo lucido, la lente che non concede alcuna rima alle asprezze che il Sud
ancora assegna a chi, appunto, non fugge.
Non siamo in presenza di un
meridione mitizzato. Se il raffinato e semplicissimo gusto della terra (“Terra”
è una delle due sezioni che compongono il libro, l'altra ha come titolo “Aria”)
permea il canto dell'autore ed evoca reminiscenze di suoi illustri predecessori
(tra tutti Rocco Scotellaro) Di Lena affonda l'inchiostro nel sangue del corpo
sociale. Conosce il disagio, la disoccupazione, il precariato, l'assenza di
possibilità, tanto da indicare come “possibile”, soltanto l'aria e tutto ciò che
nella seziona “Aria” enumera: la parola, la bellezza della sua terra, la gioia
del corpo, e una schietta quotidianità delle cose. Ma non si deve cadere in una
facile assegnazione di questa poesia alla categoria del dolore, poiché l'opera
in questione è prima di tutto politica, se per politica si intende assunzione di
responsabilità rispetto agli altri.
Di Lena con voce propria parla per conto
altrui, riservandosi il non facile ruolo di custode della meridionalità e allo
stesso tempo quello di spietato censore dei mali che affliggono la propria
regione. Se, come scrive Vito Riviello (altro celebre conterraneo dell'autore)
“(…) più a sud del sud c'è il sud...e poi c'è il Sudafrica” , non ci si
può esimere dal soffermarsi su questo nostro Sud per raccogliere la denuncia che
Di Lena solleva e restituire aria ad una terra tanto fertile quanto martoriata.
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Recensione |
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