Un gorgo di sensazioni
che si sviluppa nella natura e intima all’autore una necessità: esprimersi
attraverso il verso. Prati, vento,
grandine, semplicemente il mondo, il suo risveglio in esso, traumatico a tal
punto da rinnovare in gran parte della silloge un senso di disorientamento e di
angoscia.
I testi di
D’Acquisto, impregnati di una classicità forte e che non tentano la via della
sperimentazione si alimentano dell’immagine, della sua necessità per trasferire
nella parola una forza evocativa che traduca una sensazione diretta e schietta:
l’incapacità di godere appieno della bellezza, per una fine che incombe e
strozza ogni gioia duratura. “Domani tutto
sarà di cenere fredda” pronuncia il D’Acquisto alla
fine di una sua poesia; la gioia “ridesta” ma “torna a ronzare senza
speranza”.
E’ forte
nell’autore il riferimento a una età primordiale dell’uomo fagocitata dai ritmi
ossessivi di una civiltà feroce (…”ombre di uomini vivisezionati sotto la
bandiera del progresso (….) “e la mente affoga nel magma umano”) a
cui si aggrappa per ricondursi a una natura che viva sì di necessità ciclica ma
non di oppressione da parte dell’uomo.
Così si rivolge
a interlocutori che non hanno parola, come stelle, lucertole, dirupi, a cui
consegnare sogni che il D’Acquisto definisce “onda bastarda”; per
l’autore però “la stella umana” rimane la più imponderabile creatura
dell’universo portatrice di un raggio rivelatore per gustare il quale si può
“trascinare mille anni sulle orme della sofferenza”.
E’ implicito
nella poetica di D’Acquisto che questo è un anelito vano ma necessario, come la
“furia feroce dell’ira | che avvampa | vanifica | mente | animi | cose”. E in
quel “cose” che l’autore scrive in linea perpendicolare al testo si
raccoglie forse lo spunto più interessante della silloge, la provocazione e il
gusto del paradosso nel poter modificare almeno sulla carta, il corso della
necessità.
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