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Solitudo
“Nella solitudine, un aratro scuote la terra // Che solo nel
profondo / il tempo inzuppa di umido sonno. Solchi, come vite,
prendono i semi.”
Se è la solitudine, a partire dal titolo, a permeare la
silloge di Annamaria Cielo, dobbiamo scavare all’interno di questo sentimento,
molto più duttile e variegato di quanto si possa pensare, per cogliere l’essenza
di questa silloge.
La “solitudo” della poetessa è infatti un varco attraverso
il quale si compie un necessario viaggio introspettivo, che nella apparente
individualità in realtà abbraccia l’altro, lo racconta, lo dilata, lo rende
vivo. Annamaria Cielo scrive testi brevi e densi, in cui è sempre presente la
figura dei genitori, numi tutelari del viaggio tra i ricordi, a margine di un
vuoto che sembra minacciare il suo camminare, il suo sogno, la sua speranza,
“C’è un vuoto che va visto al buio. / Senza un sasso per
udirne il fondo. / Senza attese né punti di sostegno. / Senza carezze né amore.”
In questa palpabile densità emotiva, dove l’autrice cerca incessantemente di
calarsi, la vera minaccia è il deserto emotivo ancor di più del dolore. I testi
di Annamaria Cielo si raccolgono attorno al ricordo per allontanare la minaccia
di questo vuoto. La solitudine è infatti, per dirla con l’autrice, “l’atto
d’esser vivi”. La poetica di Annamaria Cielo ci ricorda il famoso verso di
Emily Dickinson: sarei più sola senza la mia solitudine. La dimensione che
ancora più del tempo ci rende noto il cambiamento, “carattere muto ed
evoluzione”, dove il ricordo è ancora “scala e tiro per la vita mula”.
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Recensione |
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