| |
A ritroso. Versi e prose 2010-1985
Trovo
interessante ed originale l’idea di procedere all’incontrario, per
l’appunto “a ritroso”, nel tentativo di reinventariare un quarto di secolo di
attività poetico-letteraria. In effetti, per poter “ricostruire”, un serio
lavoro di scavo deve partire dall’esame – e/o dall’eventuale recupero o
rimozione – delle macerie, quelle più evidenti, ingombranti e a diretta
portata di mano, che potrebbero ostacolare o bloccare il passaggio. Ciò in
quanto il percorso effettuato, come quello da compiere, non si presenta mai
agevole, nonostante gli intenti di ricerca – nel nostro caso, da parte di
Mandolini – scaturiscano quasi sempre dall’esigenza concreta di acquisire un
metodo di lavoro e di studio in grado di soddisfare la propria inappagata (e
inappagabile) ansia d’integrità e di completezza.
A ritroso
è una sorta di “antologia personale”, ben meditata, brillante ed acuta. Nella
Nota intitolata Oltre la parte più scura dell’ombra, Fabio Franzin
osserva che si tratta d’una ricerca segnata “leopardianamente dallo sguardo
legato alla riflessione”, opportunamente circoscritta nelle sue potenzialità
vincolate a tener conto, passo dopo passo, dei testi che, come soggettive
“pietre miliari” hanno pre/fissato l’itinerario finora completato dal
poeta. Un efficace, e non esclusivo, uso e consumo delle
esperienze vissute, anche se – apparentemente – “la distanza calcolata in
sguardi / tra lo stupore del prossimo passo / e la lucida amnesia del
successivo”, non ha portato a conclusioni soddisfacenti. Sorge spontanea la
domanda: in quale direzione è scandito il tempo presente? Sarà per questo che
Danilo Mandolini, lucidamente frastornato e disilluso, ha contrassegnato la
prima tappa – denominata “Uno” – della sua ricognizione all’indietro con
l’esergo: “(minima propedeutica per non smettere di scrivere)”.
L’espressione
“a ritroso” va intesa, anzi corrisponde certamente, anche ad un muoversi
“controcorrente”: come non pensare al celebre romanzo di J. K. Huysmans “À
rebours”, un’impietosa analisi del dramma psicologico-esistenziale incarnato
dal solitario protagonista, tristemente consapevole del fatto che ogni
afflizione, ogni nevrosi, è conseguenza del male di “non-vivere”. Come Jean
Floressas Des Esseintes – il personaggio creato da Huysmans – cura con certosina
e maniacale attenzione e minuziosità libri e oggetti, così Danilo
Mandolini viviseziona – saggiamente, con un ingegno non morboso, semplicemente
curioso – gli “storditi segni”, l’“evidenza sfrontata”, l’“alito minaccioso dei
minuti”. È l’enigma del Tempo che fagocita essere e non-essere.
Sono terminali accidentali, quindi ingannevoli, tra i quali l’autore colloca un
altro mistero, il (nascere), posto proprio così, tra parentesi. Una delle
liriche-chiave, infatti, è quella dedicata alla nascita. Leggiamone
alcuni versi: “Sapere da sempre e non ricordare” significa non sapere “né di sé,
né del proprio silenzio”.
Un libro che
s’alimenta di metafore estremamente sottili: la memoria potrebbe essere
paragonata a “tasche sdrucite e capienti”, sottoposte alla dura “disciplina
dell’usura” del tempo. È la stessa voce del poeta a suggerire, sospirando
timidamente e senza convinzione alcuna, domanda e risposta: “Sapere cosa accadrà
agli anni / è un po’ come cercare di sapere (…)”.
È palpabile,
soprattutto, la condizione di disagio dovuta alla “non scelta” di doversi
riconoscere in un quadro di persistente (im/mutabile?) ri/cognizione
rimasto abbozzato nei disegni e nelle velleità d’un tempo, perché amputato di
tante ramificazioni vitali ricondotte ad uno stato embrionale. Lo sforzo
maggiore da parte di Danilo Mandolini è volto, allora, proprio ad evocare
quell’indefinibile sensazione di sospensione e di stupore, che continua a
dominare incontrastata.
Uno
smarrimento esistenziale che induce al turbamento e all’abbandono: è “il torpore
del risveglio nell’oblio”, ossia la coscienza di sé inseparabile dall’intima
consapevolezza della finitudine e dell’inadeguatezza delle cose.
Ancora
elaborando e registrando – in un tragitto in fieri allettante ma cosparso
d’aculei, s’intravedono preziosi spiragli per rimeditare e, forse, per
rimediare ad un siffatto status – se vogliamo, d’impotenza –, varchi
consistenti in modalità teorico-pratiche finalizzate all’incamminamento (sempre…
a ritroso) verso ulteriori sperimentazioni linguistico/creative. Uno
smembrato bagaglio che sarebbe errato definire virtuale, perché basato su
verifiche e riscontri empirici, i più elementari e consequenziali, utili
all’individuazione d’un “ago che ricuce gli strappi ed imbastisce / i giorni
dimenticati e persi della vita”.
| |
 |
Recensione |
|