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Con gli occhi di Bjork. Storie balzane e altri raccontiI racconti di Marcello Pesarini rispecchiano idee originali e brillanti, proprie di uno spirito libero e controcorrente. Sono storie talvolta autobiografiche, sospese tra reale e surreale. È un genere assai particolare, capace di raffigurare in maniera convincente aspetti nascosti di una stramba e incomprensibile realtà, evitando percorsi abusati eccessivamente aderenti al vissuto. Emerge da ogni pagina un’intensa vis provocatoria incisiva e ammiccante, sempre garbata e vivace. L’autore mette tutto ironicamente in discussione, e sono davvero tante le variegate situazioni descritte attraverso rapidi flash capaci di trasmettere stupore, irritazione e anche ilarità, a seconda delle vicende narrate. Il volume è suddiviso in cinque sezioni, ciascuna preceduta da una sorta di premessa firmata da una gattina di nome Bjork, la quale ha un fratellino chiamato Rof.
La prima sezione è intitolata Biork introduce sull’identità. La nota firmata dalla gattina è incentrata sulla personalità del suo padrone, descritto come un soggetto piuttosto imprevedibile: “Un giorno si sente bene, un giorno male, il terzo giorno marca visita”. Nell’intera sezione il discorso mette a fuoco, da angolazioni diverse, lo squallido e per molti aspetti tragicomico “gioco di ruoli” – come s’era espressa la gatta a proposito del suo padrone – su cui è basata la società in cui viviamo. Pesarini qui è molto bravo nell’osservare uomini e bestie – in un mix di fabula e humanitas – dando vita a spunti sempre inconsueti e coinvolgenti. In Identità di carta al centro della narrazione è la vicenda d’un poveraccio, il cui nome Pasquale Ognissanti sembra uscito da una novella di Pirandello, morto durante uno scippo e della cui carta d’identità – recuperata dalla polizia insieme con altri effetti personali – s’impossessa un barbone finito anche lui al commissariato. Il clochard ne approfitta astutamente per acquisire l’identità del defunto. L’ironia amara dell’autore è tutta giocata sul significato dell’espressione “identità di carta”, in un sistema privo di valori dove ognuno non è altro che il numeretto e la foto-tessera riportati su un pezzettino di carta. Anche in Perché Pavel si chiama Yuri? siamo di fronte a una colorita, e nello stesso tempo malinconica, storia di spersonalizzazione in cui la figura alquanto sbiadita di un bagnino russo dalla strana identità, emigrato in Italia, appare sullo sfondo delle colonie estive per bambini a Tarquinia. Il bagnino fa anche da animatore, ed è conosciuto con il nome di Yuri. Ma il giorno in cui un bambino - forse un nuovo arrivato - gli chiede il suo nome, lui risponde: “Io mi chiamo Pavel”. Questa risposta suscita la sorpresa di tutti gli altri bambini, i quali gridano in coro: “Non è vero! Il maestro si chiama Yuri”. Il bagnino allora, “dopo uno sforzo enorme per pronunciare il suo nome corretto”, dichiara: “È vero, io mi chiamo, mmmPavel”. Ovviamente, “mmmPavel” è cosa ben diversa da “Pavel”, ragion per cui il misterioso bagnino non ha mentito: il suo vero nome è proprio “mmmPavel”. È chiaro che dietro quel balbettio – mmm – si nascondono tristi vicende di vita vissuta che Pesarini preferisce sdrammatizzare, trasfigurandole quasi in farsa: quella d’un uomo senza storia sradicato dalla sua terra e forse costretto a mentire. La seconda sezione Bjork e i mestieri si apre con l’ameno resoconto di Bjork, la quale ci parla delle esperienze lavorative del suo padrone tra le quali quella di spazzino, un’attività svolta “come per gioco”. Di questa vicenda si occupa il lungo racconto Via del Vallato. Siamo a Pesaro nell’anno 1985. Il tono descrittivo presenta i caratteri propri di luoghi, personaggi e situazioni molto vicini all’autore. L’io narrante, con ogni probabilità lo stesso Pesarini, è un trentunenne “ex studente di belle speranze”, che viene assunto come netturbino al Comune di Pesaro. Sono non poche le disavventure a cui egli va incontro come un Fantozzi di primo pelo, anche perché egli è in possesso di una preparazione culturale che meriterebbe di espletare ben altre mansioni. Questo dato di fatto offre a chi scrive – che ne sa qualcosa per esperienza personale – lo spunto per altre riflessioni. La volontà della sinistra storica, nei primi decenni del dopoguerra, di offrire a tutti la possibilità di conseguire dei titoli di studio anche elevati, avrebbe avuto un senso compiuto in una società di “eguali”, ossia in una società socialista nella quale il bagaglio culturale si carica comunque di un valore intrinseco al di là dell’attività lavorativa svolta. Al contrario, in un sistema fortemente classista come quello in cui viviamo, in cui i titoli conseguiti vengono apprezzati soltanto se si ha la possibilità di utilizzarli al meglio (magari grazie a qualche “spintarella”), accade che se un laureato andrà a fare l’operaio sarà generalmente considerato un “fallito”. Nel racconto trovo molto interessanti, oltre che divertenti, le pagine in cui il neo-netturbino, in ore antelucane, s’imbatte in una vecchia signora che abita in Via del Vallato, la zona a cui egli è stato assegnato. In un dialetto pesarese che sa di primordiale e d’arcano, la donnina spiega che nelle immediate vicinanze scorre il Vallato Albani, un canale artificiale sotterraneo che un tempo “dava l’acqua ai mulini, alle filande, e in seguito alla Montecatini.” La vecchina si congeda con un suggerimento molto invitante per un giovane acculturato: “Se ti chini appena dopo l’Arco, sentirai il rumore del Vallato.” Preso dalla curiosità e stimolato da un suo collega di passaggio, il protagonista scoperchia con una tenaglia la bocchetta che “apre la vista” sul canale e vi finisce dentro. In balia della corrente, il malcapitato sembra destinato a soccombere, quando un vortice d’acqua fuoriesce dalla portella trascinando sulla strada il netturbino, sano e salvo. A questo punto l’autore cambia registro: l’atmosfera si fa surreale, e si entra in un paranormale a dir poco grottesco. Si odono le voci di defunti precipitati nel canale in epoche lontane, dapprima quella di un bimbo di dieci anni e poi quella di un certo Luigin de Cagasecc. il finale del racconto è picaresco. Alcuni monelli del quartiere che, nel frattempo, avevano sequestrato il furgone dell’immondizia chiedendo un riscatto per restituirlo, nell’udire la voce dall’oltretomba di Luigin perdono i sensi terrorizzati, sicché il netturbino può riprendere possesso del mezzo. La terza sezione, Bjork e i sentimenti, dà voce ancora alla gattina, che si chiede anzitutto perché “i gatti non sanno piangere”, al che Rof aggiunge: “Neanche ridere, per questo”. Ma Bjork precisa: “Noi gatti siamo più concreti nell’espressione dei nostri sentimenti.” Questo perché un gatto non enfatizza né recrimina. “Con me si torna sulla terra”, conclude Bjork. In questa sezione figura il racconto breve – ma molto sostanzioso – intitolato Gorkji. È questo il nome del noto scrittore russo Maksim Gorkji, il padre del cosiddetto realismo socialista. La storia è apparentemente banale, ma ricca di significato. Nel racconto, Gorkji è il nome del cane lupo che viveva quasi in simbiosi con il piccolo Marcello, quando questi era condotto in carrozzina dai genitori e dai nonni nella loro villa di Viterbo. Che il nome assegnato al cane fosse ispirato a quello dello scrittore russo, lo si evince dal fatto che lo zio Sandro è descritto intento nella lettura del “suo libro preferito”, per l’appunto il romanzo La madre di Maksim Gorkji. La storia di questi personaggi s’intreccia con quella d’una lumaca, che uno dei nonni s’era divertito a schiacciare col bastone, per strada, credendo di far divertire il bambino. In seguito i genitori di Marcello annunciarono ai familiari, riuniti in giardino, che presto si sarebbero trasferiti a Sondrio. Sulla capote della carrozzina s’era fatta largo, lentamente, un’altra lumaca, sul cui guscio i raggi del sole ricamavano riflessi ramati. La madre di Marcellino vide la lumaca e fece un gesto per agguantarla e gettarla via. Allora il cane Gorkji iniziò ad abbaiare, obbligando la donna a rinunciare al suo proposito. Aveva assistito alla scena lo zio Sandro, che esclamò: “Portateveli dietro, il cane e la lumaca, che lassù al Nord ci vuole un po’ di protezione dai musi lunghi.” È evidente che ci troviamo di fronte a una serie di metafore. Quella lumaca – come auspicò lo zio Sandro – nella mente del bambino doveva diventare “un animale protettivo come Gorkji”. Ma la lumaca simboleggia anche la casa: fu come se la famiglia in partenza per il Nord avesse sentito il bisogno di portare con sé un’immagine, un amuleto vivente della terra natia. Era stato il cane Gorkji ad intuire, istintivamente, la portata di quell’ancestrale archetipo. Procediamo quindi nella lettura della quarta sezione, Bjork e i corti. Per capire di cosa si tratti si rivelano utili le spiegazioni della gattina. Il suo umano ha deciso di dedicarsi ai “cortocentimetraggi della scrittura”, ossia a brevi narrazioni della lunghezza massima di “1.500 zampettate”, ossia battute. È un concorso radiofonico inventato da un certo Gatto Cioce. Tra i numerosi “corti” della sezione, ci soffermiamo su uno – sostituendoci a Gatto Cioce – scelto tra i più significativi: è intitolato “Le ciliegie sono mature”, nel quale storia e favola s’intrecciano magnificamente. Durante la Resistenza, un gruppo di partigiani della provincia di Pesaro era solito riunirsi in una stalla nei pressi di Tavullia, dove, ricoperta dalla polvere, giaceva una vecchia radio che nessuno notava. All’interno di quella radio s’erano stabiliti dei topini. Un giorno una non meglio precisata Vincenza – una partigiana, o forse una topina, chissà –, venne a conoscenza che il Comitato di Liberazione Nazionale avrebbe dato il via all’insurrezione antinazista usando come motto la frase in codice: “Le ciliegie sono mature”. I topini subito si mobilitarono per collegare alla presa della corrente il filo della radio affinché i partigiani ascoltassero il messaggio, un’operazione che costò la vita a molti di quei topini. Ora la radio era in funzione, e quando arrivò il segnale i partigiani si diedero alla caccia degli invasori. Finita la guerra, la stalla fu intitolata: “Stanza dei topi, nel loro piccolo morti per la libertà”. L’ultima sezione, Bjork e la fantasia, è la più corposa del volume. La gattina confessa nel suo solito commento introduttivo: “(…) riempio queste righe per la devozione che ho per il mio umano, non per amore di verità”. E aggiunge: “Il compito che mi è stato assegnato, commentare la sua fantasia, è sovraffelino”. Ma suo fratello Rof non è d’accordo, e costringe Bjork a correggere i suoi giudizi. Estremamente interessante è il racconto “L’Italia si è spostata a destra”. Qui realtà e immaginazione si fondono in maniera perfetta. Tutto ruota intorno ad una metafora iniziale, quella dei bagnanti che, recatisi al mare nel giorno di Ferragosto, scoprono che il mare non c’è più. Ma i tentativi di spiegare i motivi della scomparsa del mare si accavallano con altre considerazioni riguardanti la scomparsa della sinistra. I discorsi che ne vengono fuori sembrano irrazionali, ma non lo sono affatto. A recriminare è la voce dell’io narrante, e qualche sua esternazione si direbbe ricavata dalla piazza, dove la vox populi spesso risponde a sacrosante verità. Eccone un esempio: “La tragedia si poteva catalogare fra quelle prevedibili, perché a forza di annunciare che si sarebbe protestato da parte della sinistra, finendo poi per accontentarsi a trovare un centro più centrale al quale rivolgersi, (…) si erano tutti rivolti altrove, e non essendoci più sinistra visibile, non l’avevano più votata. E non essendoci più bastione contro l’avanzata degli Unni, l’Italia si era spostata a destra.” Un altro j’accuse prende l’avvio osservando la processione di bagnanti rimasti senza mare: “I bagnanti, piuttosto seccati, si appoggiarono in una fila continua dal Po fino al Salento. (…) Uniti nel dolore, nell’inattività, nell’impotenza. (…) Una metafora della sinistra, che non si accorge nemmeno di essere un corpo formato da tanti elementi.” Un’amara riflessione mette il dito nella piaga dell’allegoria “mare/sinistra”, come se si trattasse di oggetti smarriti: “(…) il mare bisogna amarlo, sentirlo, non è un badurlo qualsiasi, atto a passare la giornata. (…)” A risolvere il mistero è l’investigatrice Tapolina, giunta sul luogo del delitto in carrozzina perché da bambina fu affetta da poliomielite, epperò è un’eccellente nuotatrice. La detective si tuffa laddove una volta c’era il mare e… miracolo! Scrive l’autore: “(Tapolina) buca la parete di omertà, di disillusione, di accidia che proiettava illusioni negli occhi di tutti”. Infatti l’investigatrice “Si ritrova in acqua, ed è la stessa acqua di ieri: è l’Adriatico mare, salto, puzzolente di petrolio, poco profondo, ma è sempre lui.”. Continuando a nuotare, Tapolina ammonisce: “Non ci avreste creduto se non l’avessi fatto, eppure vi hanno ingannato perché siete pigri ed egoisti. Sapete perché hanno eretto questa barriera a base di pensieri scontati? Perché voi non pensate più, e non vi ascoltate nemmeno, ed è facile ingannarvi.” Appena uscita dall’acqua, Tapolina s’accorge che “il muro dei pensieri scontati si stava riformando”, per cui si ostina nel voler capire cosa c’è sotto. Aiutandosi con il suo bastone Nico comincia ad esplorare il fondo marino, finché trova una botola che nasconde un mondo sotterraneo. Interroga un macchinista di “treni marci” (perché trasporta solo rifiuti) e apprende che al di sotto del livello del mare transitano treni interminabili che trasportano materiale di scarto da scaricare nell’ex-Jugoslavia e in altri Paesi dell’Est. Si tratta di “quella parte della nostra sovrapproduzione che non riusciamo più a smaltire”. Lo scopo è costruire al di là dell’Adriatico finte montagne di spazzatura verniciata a nuovo e giardini di plastica, insomma un fittizio eden terrestre. La metafora è finalmente svelata: cosa offrire alle popolazioni degli ex-Paesi comunisti soggiogate dal cosiddetto sogno americano? Soltanto illusioni e cumuli di immondizia. Sono racconti nitidi, profondi, incisivi e arguti, volti ad un fine etico-educativo oggi purtroppo non molto sentito, che l’autore persegue utilizzando i più svariati strumenti, dall’ironia alla pietà per la condizione umana. Marcello Pesarini rappresenta, pertanto, una felice scoperta. È un autore dotato di eccezionale estro e creatività, doti che pone al servizio della giusta causa e dei più nobili ideali. |
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