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Evgenij Evtušenko“Tra tutti gli inganni, io inganno non sono”
Tra i peculiari aspetti della multiforme personalità di Evgenij A. Evtušenko (Zima, regione di Irkutsk, Siberia, U.R.S.S., 18 luglio 1932 - Tulsa, Oklahoma, U.S.A., 01 aprile 2017) - poeta, scrittore e saggista, nonché drammaturgo e regista cinematografico - spicca la sua indole fortemente volitiva e comunicativa, indomita e impetuosa, in un irriverente e provocatorio cocktail di genialità e vitalità, ma anche di disarmante sincerità e generosità, accanto alla connaturata fede non nei simulacri del potere, bensì nell’Uomo in quanto tale. Per il Maestro del disgelo credere nei valori dell’Umanità significava porre insostituibili basi - le uniche seriamente praticabili e auspicabili -, per un domani di Pace. Evtušenko non escludeva a priori le ragioni dell’impegno politico, che anzi abbracciò da protagonista nell’ultimo periodo dell’agonizzante Unione Sovietica. Semplicemente, subordinava la logica e i metodi - spesso subdoli e fratricidi - della ragion di Stato ad un superiore e più nobile atteggiamento di condivisione e attenzione per le necessità e le attese, incombenti e vitali, di moltitudini di diseredati schiacciati dai perversi meccanismi d’un potere sempre uguale a se stesso. In tal senso, i suoi interessi non erano circoscritti all’ambito strettamente - e sterilmente - letterario e creativo, al contrario prendevano sempre le mosse da una solidale partecipazione alle più disparate vicende umane per trarne, in maniera convinta e feconda, spunto e ispirazione per il suo lavoro di scrittore. Contrariamente alle deviate forme di disimpegno oggi in voga, Evtušenko credeva nella funzione sociale - positiva e costruttiva - della letteratura, nella convinzione che la cultura possedesse, di per sé, la capacità di incidere sul flusso degli eventi. Così, accanto ai tanti poeti e scrittori “impegnati”, ognuno a suo modo nell’arco del Novecento - da Maksim Gor’kij a Vladimir Majakóvskij, da Rafael Alberti a Bertolt Brecht, da Pablo Neruda a Nikos Kazantzakis, da Nâzım Hikmet a Paul Éluard, da Jean-Paul Sartre a Pier Paolo Pasolini -, Evtušenko si è dimostrato il fedele interprete e cantore di innumerevoli drammi esistenziali, dando voce, nelle sue opere, alle infiacchite aspettative di riscatto degli ultimi della Terra.
Ženja, diminutivo di Evgenij, amava rievocare - senza nulla nascondere - gli episodi goffamente dolorosi della sua prima infanzia e adolescenza, di marca tutta felliniana ma anche pasoliniana, da quel combattuto e turbolento “ragazzo di vita” che covava nel profondo della sua anima. Ne ha fatto più volte cenno in anni lontani e recenti, con calde tinte nostalgiche, nel contempo accese e ammonitrici: “Il razzismo l'ho provato sulla mia stessa pelle. Quando nacqui non mi chiamavo neppure Evtušenko, ma Gangnus, il cognome di mio padre, un nome tedesco. Avevo sette anni quando scoppiò la guerra e la maestra, alla Stazione Zima, diceva agli altri: «Come potete giocare con quello? È un tedesco». Mia nonna, una donna saggia e forte, perse la testa, afferrò un mattarello e si precipitò a scuola. Trovò la maestra seduta sotto un manifesto con Marx e Engels. La sua furia sfumò. Disse: «E quei due sono forse uzbeki?». Ma poi decise che era meglio cambiare il mio cognome con quello di mia madre, per metà polacca e per l'altra ucraina. Da quel giorno sono Evgenij Evtušenko” (la Repubblica, 12.12.2007). Senza recidere o allentare i viscerali legami con la Madre Russia, il Poeta si proclamava cittadino del mondo. Ogni vero russo considera inscindibili i rapporti con la propria terra. Nella poesia Requiem per un marinaio, scritta in memoriadeimarinai del sottomarino nucleare russo K-141 Kursk, rimarcò una siffatta comunione d’affetti - che talvolta può trasformarsi in condanna, in castigo -, sintetizzata nel temine rodnìe: «Addio miei "rodnìe". / Solo in russo esiste / questa espressione insondabile: / "compatrioti" o "carissimi" / “sinceri", "amati" e "cari".» (la Repubblica, 27 ottobre 2000). Infaticabile viaggiatore, sfidò vittoriosamente, a viso aperto, le imposizioni e le chiusure del regime sovietico. Percorse in lungo e in largo, senza mai risparmiarsi, gli angoli più remoti del Pianeta sospinto dall’ansia di conoscere e toccare con mano le aberrazioni del nostro tempo. La nomenklatura del PCUS provò più volte a tarpargli le ali, come accaduto a tanti scrittori e artisti anche non dissidenti. La posizione tenuta dal ribelle Evtušenko nei confronti del potere era complessa e articolata: direi “unica”, come unica era la personalità del suo artefice. Un comportamento non studiato, al contrario istintivo, non di rado confusionario e spericolato come ricorda buona parte dei suoi amici e conoscenti.
Pur avendo preso pubblicamente le difese di autorevoli dissidenti ingiustamente perseguitati - da Vladimir Dudincev ad Aleksandr Solženicyn -, procurandosi non poche grane, Evtušenko non accettò mai che tale appellativo - titolo o marchio -, venisse attribuito anche a lui. Non perché disprezzasse l’epiteto di “dissidente”, oppure fosse un calcolatore opportunista come qualcuno ha scritto. Beffeggiando i maligni con singolari toni tribunizi - esasperati ma suadenti -, ribadì in più occasioni, intimamente pacificato dalla certezza d’essere nel giusto, versi come i seguenti: “Tra tutti gli inganni, io inganno non sono.” (da Romanzo con la vita e altre poesie, Ed. Interlinea, Novara, 2007). La verità è che egli credeva sinceramente in un socialismo dal “volto umano”, ossia in un socialismo libertario i cui valori giudicava inscindibili e non in contrasto con le conquiste fondamentali della Rivoluzione d’Ottobre. Sul piano ideale, senza mitizzarli o esaltarli troppo, considerava i moti bolscevichi guidati da Lenin un evento incontrastabile ed incontestabile che, in quel preciso momento storico, era ampiamente giustificato e di assoluta portata nella storia della Russia e dell’umanità in generale. Ženja era, in ultima analisi, un ostinato e irriducibile - a tratti, piuttosto ingenuo - sognatore e idealista. Non riconoscere un tale dato di fatto significa stravolgere la sostanza del suo magistero, umano, letterario e anche politico, con la necessità di dover manipolare, consequenzialmente, ogni minima circostanza della sua esistenza per far quadrare i conti e giungere, in qualche mondo, al distorto bandolo della matassa. Tutto questo, palesemente, allo scopo di dare adito a scriteriate insinuazioni di doppiogiochismo. Fino a prova contraria, in tanti poemi di Evtušenko è possibile riscontrare, accanto alle pesanti critiche al totalitarismo bolscevico, delle sottili ma intense “dichiarazioni d’amore” nei confronti della Patria socialista, prive di quell’enfasi e di quella magniloquenza che gli si vorrebbe addebitare. Egli riuscì quasi sempre a salvarsi, grazie alla sapiente capacità di valutare e commisurare - fondendo lo sdegno più severo con un irrequieto trasporto emotivo -, aspetti positivi e negativi della realtà sovietica. Il poema Mamma e la bomba (Edizioni del Leone, Spinea, 1985) si apre con delle incalzanti enunciazioni in serie, che sono tutte un programma: “Mamma faceva parte della Gioventù comunista, / fazzoletto rosso al collo / e giacca di pelle. / (…) / Ma c’è sulla giacca un foro, / che sembra di proiettile, / dovuto a un distintivo / applicatovi un tempo / e distaccato poi, / sul quale si stagliavano / cinque lettere di fiamma: OIACR. / Sono della generazione / che ricorda ancora / il loro significato… / Anche a voi lo rammenterò, / giovani degli anni Settanta, / che infiammati barattate / un distintivo dei Rolling Stones / con uno degli ABBA, e questo / con uno di Elton John. / OIACR sta per: / Organizzazione Internazionale di Aiuto / ai Combattenti della Rivoluzione. / Ho fatto in tempo a giocare con questo distintivo, / quando mamma smise di portarlo.” Evtušenko teneva in altissima considerazione gli uomini di cultura, a qualsiasi schieramento ideologico appartenessero. Non discriminò mai gli artisti occidentali né quelli, in particolare, della beat generation, molti dei quali erano suoi amici. Nel giugno 1979, insieme con Bella Achmadulina, partecipò al Festival dei Poeti di Castelporziano, al quale intervennero, tra gli altri,Biermann, Borroughs, Bukowsky, Corso, Enzensberger, Ginsberg, Orlovsky, Soriano, Cucchi, Merini, Pagliarani e Testori, su quel medesimo litorale dove, appena quattro anni prima, era stato assassinato Pasolini.
Rispetto ad altri autori, specie quelli dell’area anglosassone - all’epoca impegnati in battaglie per la liberalizzazione dei costumi -, Ženja si mostrava coinvolto epperò disincantato, disponibile ma fermo nel proposito di distinguere, puntualizzare, ribadire determinati valori. In qualsiasi città o nazione si recasse, egli si sentiva sempre come a casa propria. In quelle giornate assolate sulla spiaggia laziale, Evtušenko dovette prendere atto d’una situazione oggettiva. Travolto da una fiumana di vacanzieri che, sdraiati seminudi sulla spiaggia e in tutt’altre faccende affaccendati, pensavano unicamente a divertirsi masticando chewing-gum grazie all’occasionale pretesto - seppure ammirevole - della poesia, si guardò bene dall’imitare Egor Issaev, poeta sovietico anch’egli presente al Festival, il quale si mise ad inneggiare a Marx e Lenin mietendo fischi e insulti. Così, quando uno sconosciuto chiese a Ženja dei versi estemporanei su Ostia, egli prontamente improvvisò: “Ostia, onde di preservativi!”. Ma perché confondere lo spirito di adattamento da parte del Poeta di Zima - con i suoi tentativi di comprendere usi, tendenze e culture diverse -, con l’ipocrisia e la falsità? Evtušenko compiva continui sforzi per capire le ragioni altrui, nella speranza di farsi capire. Condivideva, fino ad immedesimarvisi, gli altrui stili di vita ma proprio per questo avvertiva il bisogno di salvaguardare le proprie convinzioni, scrivendo versi toccanti come quelli - sopra riportati - di Mamma e la bomba. Chiamava ripetutamente in causa il gaudente bel mondo dello spettacolo - specie quello degli U.S.A. -, per delle solenni “tiratine d’orecchi”. Sono passati alla storia della letteratura e del costume i pungenti paralleli che Evtušenko poneva a raffronto: da un lato l’artificiosa licenziosità dei finti paradisi dell'Ovest, dall’altro i tumultuosi eventi che avvenivano oltrecortina. Erano realtà diverse che il fanatismo politico voleva diventassero incompatibili e avverse -, penetrate dal Poeta con acume attraverso sferzanti raffigurazioni simboliche. Realtà contrapposte che l’Enfant terrible fu tra i primi a decifrare e mostrare al mondo. Basti pensare al poemaSotto la pelle della statua della Libertà (1970), un fittissimo album di memorie che, scavando nel vero cuore dell’America, non si limitò a mettere alla berlina gli acclamati vip del jet set americano. Appena una decina d’anni dopo il meeting di Castelporziano, lo scenario politico-culturale planetario appariva completamente mutato. Nella silloge Arrivederci, bandiera rossa (Newton Compton, Roma, 1995), che raccoglie le poesie degli anni Novanta, ritroviamo il Poeta di Zima per nulla appagato, al contrario avvilito, deluso, stremato. Tormentandosi, egli deplora il nuovo corso degli eventi in Russia, un contesto che pure aveva prodigiosamente prefigurato: “Arrivederci bandiera rossa - dal Cremlino scivolata giù / Non come ti innalzasti, agile, lacera, fiera, (…) / Arrivederci bandiera rossa… Eri metà sorella, metà nemica. / (…) Noi, nati nel paese che più non c’è, / ma in quell’Atlantide noi eravamo, noi amavamo.”. Per concludere, in maniera inequivocabile: “Giace la nostra bandiera al gran bazar d’Ismajlovo. / La «smerciano» per dollari, alla meglio. / (…) Ma guardo la bandiera e piango.” Sono versi eloquenti, che sintetizzano con straordinaria efficacia il rapporto di odio/amore - indubbiamente, più amore che odio - che legò il Poeta del disgelo al Paese del socialismo reale. Si tratta di immagini, per la verità, coese e coerenti, già presenti nel poema Babij Jar del lontano 1961 - come vedremo più avanti -, quando scrisse: “(…) Ma quante volte, oh quante il tuo purissimo nome / è stato una bandiera tra mani impure!” Che io sappia, nessun altro autore russo fu capace, a quell’epoca, di esprimere tanta spassionata, disarmante e struggente amarezza e sofferenza. Ženja ha l’enorme merito d’aver saputo attraversare, per oltre un sessantennio, le più controverse ed esiziali stagioni della politica e della cultura - non soltanto dell’URSS -, mantenendo una costante forma mentis di totale disponibilità e apertura, con una vigile attenzione per qualsiasi tipo di cambiamento stesse maturando in ogni parte del mondo. In ogni situazione, egli badava a salvaguardare le basi irrinunciabili dei suoi principi, rimasti - ad ogni mutar di vento - sostanzialmente coerenti, come testimoniano le sue opere, a parte taluni comprensibili momenti di debolezza e incertezza. * * * Nel periodo di transizione da Stalin a Chruščëv, Evtušenko era divenuto famoso - nella madrepatria e all’estero - quale indiscusso caposcuola della generazione poetica del disgelo, una definizione che a lui non è mai andata a genio: troppo limitativa e foriera di negatività. Anziché di disgelo, avrebbe preferito si parlasse di primavera. Ma ormai quel termine era entrato nell’uso comune, ed era impossibile sostituirlo. Erano istanze culturali libertarie che rispecchiavano, sostenendola fino a condizionarla sensibilmente, l’innovativa temperie delle riforme tentata dal nuovo leader del Cremlino. Di fatto, al cospetto dell’opinione pubblica internazionale, Evtušenko era assurto ad una dignità e ad un ruolo di assoluta inviolabilità. I suoi libri vendevano milioni di copie, i suoi recital poetici riempivano teatri, piazze e stadi con centinaia di migliaia di spettatori in ogni angolo del Pianeta. Con la sua prorompente carica di vitalità, il Poeta siberiano era tanto amato ed osannato quanto combattuto e invidiato, al punto da sentirsi costretto a puntualizzare, duramente: “La gloria non me l’hanno data, / da solo l’ho presa.” (Fukù!, Poema, Garzanti, Milano, 1989). I poeti del disgelo - Bella Akhmadulina, Robert Rozhdestvenskij, Andrej Voznesenskij e altri, ma soprattutto lui, Evtušenko – ebbero la capacità e l’ardire di influenzare e permeare incredibilmente il “nuovo corso” inaugurato da Chruščëv, scuotendo la società sovietica dalle radici. Ciò perché il popolo russo ama a tal punto la poesia - e, insieme con essa, i poeti - da considerarne gli insegnamenti e gli esempi come autentici stili di vita a cui conformarsi. E’ divenuto proverbiale il verso di Evtušenko: “Il poeta in Russia è più che poeta.”. Ed è risaputo che, ovunque arriva la cultura, non è più possibile tornare indietro. Mai era successo nella storia dell’umanità che una semplice corrente poetico-letteraria potesse scalfire, con ripercussioni tanto innovative e sconvolgenti all’interno della collettività, un monolitico e arcigno potere quale si presentava l’apparato comunista. Il suo esordio poetico avvenne nel 1952 con la raccolta Gli esploratori dell'avvenire, che gli valse l'ingresso nell'Unione degli Scrittori Sovietici: appena ventenne, diventò il più giovane membro dell’Associazione. In seguito, Ženja prese le distanze da quella sua prima pubblicazione, ritenendola alquanto “acerba”. Tuttavia, già nel 1956 la successiva silloge La Stazione di Zima fu criticata dai vecchi gerarchi del Partito. Nel 1957, Evtušenko s’adoperò, insieme con altri studiosi, affinché il manoscritto del romanzo Il Dottor Živago di Boris Pasternak giungesse nascostamente in Italia, per essere pubblicato in anteprima mondiale dall’Editore Feltrinelli. Dopo la scomparsa dell’autore, intraprese una coraggiosa battaglia - per nulla agevole - affinché la dacia di Pasternak sita a Peredelkino, un sobborgo di Mosca, fosse trasformata in casa-museo. Gli anni Sessanta furono i più fertili, oltreché i più combattuti, per il “credo” letterario - in certa misura, indirettamente politico - dell’ancor giovanissimo Ženja. Nel 1961 pubblicò il citato poema Babij Jar, nel quale denunciò lo strisciante antisemitismo esistente in URSS, prendendo spunto dallo sterminio degli ebrei avvenuto nei dintorni di Kiev ad opera dei nazisti durante la seconda guerra mondiale. A Babij Jar in una sola notte, tra il 29 e il 30 settembre 1941, i tedeschi massacrarono e poi occultarono in un enorme burrone circa 33 mila ebrei. Le autorità sovietiche, inspiegabilmente, tennero a lungo nascosto l’eccidio, tanto che i contadini della zona portavano a pascolare le vacche sui terreni dove giacevano i corpi delle vittime. Finché, un giorno, non arrivò il guastafeste Evtušenko a scoprire e a denunciare l’accaduto. Benché il poema fosse stato musicato nientemeno che da Dmitrij Šostakovič nella Sinfonia n. 13, il PCUS e i suoi organi di stampa fecero in modo di ignorarne l’esistenza. L’anno seguente, Evtušenko condannò nella raccolta Gli eredi di Stalin (1962) il protrarsi dello stalinismo anche dopo la morte del dittatore, preannunciando in qualche modo l’incombente restaurazione imposta da Brežnev, a partire dal 1964. Che gli scritti di Ženja, ufficialmente non dissidente, fossero additati ad esempio da tanti scrittori dissidenti e non, è tutto dire. E’ il caso di Evgenija Ginzburg (1904-1977), militante comunista della prima ora, quindi processata e condannata a diciotto anni di carcere in quanto accusata di trotzkismo. Autrice del capolavoro Viaggio nella vertigine, edito in URSS solo nel 1990, la Ginzburg pose ad apertura della sua confessione-fiume l’esergo: “E io rivolgo / al nostro governo / questa preghiera: / si raddoppi, / si triplichi / la guardia alla sua tomba.” Sono versi da Gli eredi di Stalin di Evtušenko. L’Autobiografia precoce di Ženja, scritta a Parigi in poche settimane ed uscita nel marzo 1963 sul settimanale francese L’Express, in Italia fu pubblicata, un mese dopo, da Giangiacomo Feltrinelli, lo stesso editore de Il Dottor Živago di Pasternak. E’ risaputo che Feltrinelli apparteneva all’area comunista, ma quanta distanza c’era, già allora, tra i comunisti occidentali e quelli sovietici! Il memoriale autobiografico del giovane Evtušenko divenne un best-seller mondiale, ma fu giudicato scandaloso e censurato in Patria. Per capirne le ragioni, è sufficiente sfogliarne alcune pagine: “(…) In realtà Stalin aveva profondamente contraffatto il pensiero di Lenin. Se, infatti, il pensiero e l’opera di Lenin potevano esser riassunti nella massima: «Il comunismo al servizio degli uomini», per Stalin, sostanzialmente, erano gli uomini al servizio del comunismo.” Sono considerazioni che denunciavano impietosamente, con piena cognizione di causa, le macchinazioni e le colpe dell’apparato stalinista pentitosi d’aver dato fiducia ad un Chruščëv giudicato un incapace e già in odore di eresia, per quanto lo stesso Chruščëv ad un certo punto - avendo fiutato il pericolo - si rimangiò tante promesse impossibili da mantenere, specie in campo culturale. Pasternak fu costretto a negare pubblicamente d’aver favorito l’uscita clandestina dall’U.R.S.S. del manoscritto de Il Dottor Živago. Allo stesso Pasternak il KGB, con il benestare di Chruščëv, impose di rinunciare al Nobel per la Letteratura, minacciandolo di espellerlo dalla Russia e di confiscare tutti i suoi beni. Le rocambolesche trame che accompagnarono l’uscita dalla Russia e la pubblicazione in Italia del capolavoro di Pasternak comprovano quali spaventosi retroscena agitassero la società sovietica. Un episodio per tutti, ricostruito da Evtušenko. Nel 1957 l’autorevole slavista Angelo Maria Ripellino pregò con insistenza Ženja di accompagnarlo in visita da Pasternak, nella sua dacia di Peredelkino. Ripellino ebbe l’enorme merito di tradurre per primo e far conoscere in Italia la poesia di Pasternak. Evtušenko ha raccontato la vicenda dell’incontro con la sua solita implacabile acutezza - non priva d’un senso di devozione nei confronti dell’autore de Il salvacondotto -, corredando la cronaca dell’incontro con riflessioni assolutamente degne di nota. Al loro arrivo, i due ospiti trovarono colui che veniva definito il grande Eremita nell’orto-giardino della dacia, “vestito da sarchiatore, con stivali in finta pelle e una zappa in mano con la quale con sapienza e dolcezza copriva le patate.” Così prosegue Evtušenko: “Si andava profilando lo scandalo politico per il romanzo Il Dottor Živago, anche se ancora non era esploso. Sul capo del suo autore, coperto da un modesto berretto di lana grigia coi pallini bianchi, di quelli che portavano allora i meccanici e i tassisti, ma che dava a Pasternak un’aria di aristocratica eleganza, già pendeva un’invisibile spada di Damocle. Pasternak sapeva di dover pagare caro quel suo slancio di libertà, ma in quel momento era felice di potersi fondere con la natura, di esserne parte. A consentirgli quello stato d’animo era la dacia, divenuta per lui un rifugio salvifico, lontano dai sordidi giochi politici attorno al romanzo, che come un ligneo veliero lo trasportava con le sue pagine verso l’immortalità.” Tutto ciò - concluse Evtušenko -“Sebbene Pasternak non fosse più una «divinità dell’Olimpo», così si diceva che l’avesse definito Stalin”. (La Domenica di Repubblica, 07.01.2007). La citazione ripresa da Ženja e attribuita a Stalin potrebbe sembrare azzardata, in realtà era pienamente attendibile. E’ noto il giudizio, arditamente controcorrente, che Vladimir Nabokov aveva dato de Il Dottor Živago: per l’autore di Lolita, il romanzo di Pasternak “era una sorta di connubio fra tradizione tolstojana e pratica del realismo socialista”. Ad una sconvolgente valutazione del genere, se ne aggiunge un’altra, fondamentale, espressa dallo scrittore Enzo Bettiza il quale, a partire dal 1961, fu corrispondente del quotidiano La Stampa a Mosca. Bettiza raccontò che una sera, in casa di amici, gli fu presentato Andrej Voznesenskij, il popolare poeta esponente del disgelo. La testimonianza, pubblicata sul quotidiano La Stampa, svelò per intero – secondo il parere di Bettiza - “l’assurda banalità di fondo delle contraddizioni sovietiche”. Segue il passaggio saliente del suo resoconto: “Allorché il discorso cadde sul culto russo della poesia e quindi, inevitabilmente, sul drammatico crepuscolo di Pasternak, il giovane letterato s’incupì e disse polemico e sarcastico: «Al più grande poeta del nostro Novecento Stalin non torse neppure un capello. E’ stato l'ignorante pseudo-liberale Kruscev a condurlo alla rovina e condannarlo ad una morte prematura da crepacuore. La gratitudine di Stalin per le traduzioni russe di Pasternak dei maggiori lirici georgiani fu, a dir poco, adamantina e profonda. Eh, Stalin! In gioventù amava poetare, era un geniaccio capriccioso e per niente incolto.»” (La Stampa, Tuttolibri, 29.05.2010). In pratica, fin dai tempi del Dittatore georgiano, circolavano voci secondo cui questi proteggesse, in qualche modo, Pasternak. Enzo Bettiza avvalora le teorie di Nabokov e di Voznesenskij, che paiono convergere tra loro. Lo stesso Bettiza riprende e spiega nei dettagli il pensiero di Nabokov circa il romanzo di Pasternak, sfuggente e impenetrabile come tutti i grandi capolavori: “Secondo Nabokov, Pasternak evitava di affondare il bisturi nelle viscere di una guerra civile susseguente all’invisibile «rivoluzione d’ottobre». Infieriva contro i combattenti bianchi, facendo intravedere al tempo stesso nell’estremismo rivoluzionario del comandante rosso Strelnikov, che si spostava come Trockij in treno blindato da un fronte all’altro, l’ombra di un traditore latente. Trattava poi i protagonisti principali, Živago e Lara, come due monadi acomuniste (non anticomuniste, sottolineava Nabokov) sperdute tra i flutti di una storia violenta e imprevedibile. Infine, per la loro figlia Tanja, una ex besprizòrnaja (“ragazza di strada”, N.d.A.) divenuta lavandaia, «rozza materia» d’ultima generazione, si preannunciava dopo la seconda guerra un futuro migliore sotto la protezione d’uno zio inatteso - il generale Evgràf Živago - fratellastro «positivo» di Jurij Živago. Il libro si chiudeva in effetti in un’atmosfera da romanzo d’appendice dai riverberi accortamente krusceviani: «Benché il sereno e la libertà attesi non fossero venuti, insieme con la vittoria, questo non aveva importanza: la libertà era nell’aria, in quegli anni, e ne costituiva l’unico contenuto storico»”. (La Stampa, Tuttolibri, cit.). Detto questo, ci sarebbe da chiedersi - con Bettiza - come mai Chruščëv nel 1958 lasciò che la nomenklatura distruggesse “l’inerme e assai meno pericoloso Pasternak”, mentre “nel 1962 concesse l’imprimatur al primo Solženicyn per Una giornata di Ivan Denisovič, aprendo le porte blindate del regime alla verità sull’arcipelago di schiavitù e d’agonia dei gulag” (Bettiza). Probabilmente, la spiegazione sta nella diversa risonanza internazionale del caso “Pasternak” rispetto all’inizialmente sottovalutato caso “Solženicyn”, ma anche nella goffa dabbenaggine con la quale il Leader del Cremlino cercava di destreggiarsi tra i complotti orditi ai suoi danni, di cui era comunque a conoscenza. Anche le date ebbero la loro importanza: nei primi anni della nomina di Chruščëv le fazioni politiche interne al Partito presero di mira il disgelo, imponendo una maggiore inflessibilità, un rigore che lentamente andò scemando - si fa per dire -, favorendo l’ascesa di Brežnev. Senza peli sulla lingua, il sornione Evtušenko ha sempre tenuto a puntualizzare l’oggettiva realtà dei fatti, quel frenetico contesto nel quale era maturato il paludoso fenomeno del disgelo, di per sé difficilissimo da interpretare e dipanare. Figurarsi se era possibile spingersi oltre, addentrarsi nel groviglio di quei micidiali intrighi di potere. In anni recenti, esaminando ulteriori sfaccettature della questione, Ženja ha ribadito con chirurgica trasparenza una sua vecchia idea: “Lo Stalin che ancora era nascosto dentro lo stesso Chruščëv, nel 1959 permise che fosse dato il via alla persecuzione contro Pasternak per il romanzo Il dottor Živago” (la Repubblica, 18 febbraio 2006). Ciò non toglie che Evtušenko apprezzasse, fino a condividerli, molti aspetti della politica di Chruščëv, partendo dalla realistica considerazione che ogni uomo è figlio del proprio tempo ed è costretto ad operare nel contesto ben definito assegnatogli in sorte: “Il disgelo fu poi scongelato ancora molte volte, anche per brevissimo tempo, e poi di nuovo infilato nel freezer, come accadde ai tempi di Chruščëv, e poi ancora, dopo di lui. Ricordate quando fu eretto il muro di Berlino nel 1961. Eppure era lo stesso anno in cui Gagarin partì alla conquista dello spazio, applaudito dal mondo! Fummo noi stessi a distruggere l'ammirazione nei nostri confronti. Nel 1962, Una giornata di Ivan Denisovic di Solgenitsyn, sempre grazie a Chruščëv, si fece largo attraverso la censura e nella breccia che aveva aperto passò la tanto attesa e sconosciuta aria della libertà. Ma in quello stesso anno ci fu la spietata repressione della rivolta della fame degli operai di Novocerkassk, e quello scandalo assurdo, caricaturale, del Capo dello Stato che batteva i piedi e mostrava il pugno ad artisti e scrittori. (…) Dopo l'allontanamento di Chruščëv, che aveva comunque governato senza processi politici, nel 1966 ci fu il processo contro Sinjavskij e Daniel, dopo di che cominciò una continua caccia alle streghe finita con l'esilio di Sacharov, con i manicomi, i carri armati a Praga e la guerra in Afghanistan. Il disgelo se ne tornava per lungo tempo in frigo. Quasi per una giustificazione, gli intellettuali nazionalisti recuperarono una vecchia citazione prerivoluzionaria di Leont'ev, secondo cui la Russia va leggermente congelata. Eppure la perestrojka di Gorbaciov era figlia di quel disgelo.” (la Repubblica, 18 febbraio 2006). Fu quell’autolesionistico contesto, di cui Chruščëv era la massima personificazione ed espressione, a condizionare e decretare il fallimento della politica del disgelo. L’Autobiografia, prematura se riferita all’età anagrafica dell’autore, è da intendere come un indilazionabile S.O.S., il messaggio nella bottiglia scagliata nell’oceano. E’ di fondamentale importanza, perché in essa il Poeta formula una sorta di pubblica ed estemporanea dichiarazione del suo credo ideale e poetico, rimasto invariato fino agli ultimi giorni della sua esistenza: “Ho sempre amato e amo tuttora gli ideali romantici di quegli operai e di quei soldati che nel 1917 presero d’assalto il Palazzo d’Inverno. (…) Il mio popolo mi è caro non solo perché io sono russo, ma perché io sono un rivoluzionario. Mi è caro perché non è caduto nel cinismo e non ha perso la fede nella purezza iniziale dell’idea rivoluzionaria nonostante tutto il fango che la offende. (…) Il popolo russo ha sofferto, nel corso della sua storia, forse più di qualsiasi altro. Il suo carico di dolori avrebbe dovuto, a quanto dicono alcuni, diminuirne il vigore, sopprimere la sua capacità di credere a qualsiasi cosa. A me sembra invece che le difficoltà di un Paese provochino risultati opposti. (…) La mancanza di ideali angoscia l’uomo anche più prospero. Certo costui riesce meglio a camuffare la propria tristezza, agli occhi suoi e a quelli degli altri, ma ciò non fa che sottolineare il vuoto nel quale egli vive. Ma se un uomo ricco patisce della mancanza di ideali, chi vive invece tra le sofferenze, di un ideale ha bisogno in modo assoluto. Quando c’è il pane e manca un ideale, il pane può sostituire l’ideale, ma quando manca il pane allora l’ideale può diventare pane.” Non si può non restare esterrefatti di fronte alla cristallina onestà di affermazioni del genere: come è concepibile che la Patria socialista censurasse un’opera che dichiarava il proprio amore per la Rivoluzione d’Ottobre? E’ impressionante il delirio di onnipotenza di chi monopolizzava qualsiasi forma di espressione in Unione Sovietica. Come si vede, pur partendo da conoscenze personali e dirette – ironia della sorte, guadagnandosi addebiti di protagonismo -, Evtušenko si sforzava di sviluppare argomentazioni il più possibile super partes, senza insistere più di tanto sul proprio personale orientamento, lasciato equilibratamente tra le righe. In contesti politico-sociali perennemente caotici, egli faceva affidamento sul significato profondo delle esperienze vissute in prima persona - che non potevano in nessun caso essere trascurate -, in quanto canali primari di conoscenza da confrontare con situazioni oggettive a più ampio raggio. Chi abbia letto attentamente i suoi poemi, si sarà reso conto della sua dialettica inclinazione a confrontare circostanze – analoghe, contrastanti o difformi -, sperimentate in momenti, contesti e con interlocutori diversi, per cercare d’afferrarne tutta l’effettiva (inaspettata?) substantia. In tal modo, ogni sua dichiarazione e ogni suo scritto posseggono sempre solidissime basi, insieme con una sottile e duttile coerenza di fondo. Sta qui la grandezza di Ženja. A causa d’una condotta così impulsiva e impenitente rispetto alla linea del Partito - che rasentava l’intrepida, mitica incoscienza di Aleksandr S. Puškin -, egli venne sottoposto per anni a sistematici controlli non senza minacce, onde limitare e coartare la sua libertà di movimento e soprattutto quella d’espressione, perché era questo che il potere temeva in lui. Evtušenko non ha mai taciuto – senza ingigantirle né vantarsene - le smisurate, pressoché invalicabili difficoltà a cui dovette far fronte completamente da solo. Agghiacciante il resoconto che segue, reso noto molti anni dopo compatibilmente con la possibilità di parlarne, vista la gravità della questione. Ženja divulgò il contenuto delle “riunioni preparatorie” svoltesi nel 1956, alle quali - suo malgrado - fu convocato dalle eminenze grigie del Partito. L’argomento verteva intorno all’annunciata decisione di Chruščëv di denunciare i crimini di Stalin. In una di quelle riunioni il Poeta oppose un coraggioso, netto rifiuto alla richiesta di prendere pubblicamente posizione contro Pasternak. Importante notare come egli venisse intimorito a dovere, e, nel contempo, viscidamente corteggiato: “A Mosca, nella Casa degli Scrittori, in quel palazzo della vecchia aristocrazia russa dove Natasha, l'eroina di Guerra e Pace, danzò per il suo primo ballo, c'è una saletta del ristorante tutta particolare, dove oggi i nostri oligarchi ricevono gli investitori stranieri, facendo brindisi con il vellutato Château Petrus rosso o con il Château Margaux. In quella saletta, ai tempi sovietici c'era una stanza del Partito dove mi chiamarono, benché io non fossi membro del PCUS, per una lettura confidenziale a voce alta del rapporto segreto di Nikita Krusciov su Stalin, che fu letto mezzo secolo fa, il 25 febbraio 1956, al XX Congresso del Pcus. Mi avvisarono che quel che avrei sentito non poteva essere registrato, né con il registratore né su carta. Quel rapporto venne pubblicato solo 33 anni dopo, ai tempi di Gorbaciov. (…) Un giorno fui chiamato per la seconda volta in quella stessa stanza numero 8 da un dirigente del Partito, con una barba che lo faceva sembrare un nano di Biancaneve. All'inizio cercò amabilmente di convincermi a parlare in nome dei giovani contro Pasternak a una riunione degli scrittori. Cosa che mi rifiutai di fare. La mia mancanza di collaborazione lo irritò, e non lo nascose: «Ma lei non si rende conto di quanti microbi pericolosi si sono diffusi durante questo vostro disgelo. Apri un qualunque giornale letterario e senti subito un puzzo tremendo. E' ora di farla finita, e di mettere in frigo il vostro disgelo». E allora io con fervido romanticismo risposi: «Non è disgelo, è primavera». E lui, cinico: «Non ricorda quel detto: "E’ passata la primavera, è arrivata l'estate, grazie al Partito anche per questo"? Dunque farebbe meglio a ringraziare il Partito, finché ancora le chiede di mostrare il vostro patriottismo. Poi, forse, non ci saranno più proposte». E all'improvviso io vidi luccicare tra la sua folta barba da gnomo le due zanne gialle da lupo di tutta un'altra favola.” (la Repubblica, 18.02.2006). Nel 1964, il Poeta e futuro Premio Nobel Iosif Brodskij fu condannato a cinque anni di lavori forzati con l’accusa di parassitismo, pornografia e mancanza di fedeltà alla Patria. L’esito del processo sollevò una mobilitazione internazionale di intellettuali in difesa di Brodskij, tra i quali Anna Achmatova e Dmitrij Šostakovič. L’anno seguente, grazie ad una lettera di protesta inoltrata alle autorità sovietiche firmata, tra gli altri, da Kornej Čukovskij, Jean-Paul Sartre e dallo stesso Evtušenko, la pena fu ridotta agli anni già scontati, che risultarono due in tutto. Nonostante il decisivo intervento di Ženja in difesa di Brodskij, i rapporti tra i due rimasero burrascosi, con accuse da ambo le parti: Brodskij rimproverava ad Evtušenko d’essere un poeta di regime; Evtušenko replicava, di rimando, che Brodskij era un “poeta minore” di cui il mondo si sarebbe presto dimenticato. Di questa vicenda strumentalizzata dai media, il Cantore del disgelo si rammaricò a lungo. Sagacemente, nel dettare la propria iscrizione tombale nella lirica Il mio Epitaffio, fece riferimento alla travagliata querelle: “Si vendicò di Brodskij con mente acuta / dall’esilio, con una lettera, avendolo salvato.” (da Romanzo con la vita e altre poesie, op. cit.). Quale segno di ritorsione a causa delle sue sgradite accuse e denunce, dal 1963 al 1965 ad Evtušenko fu vietato recarsi all’estero. Di conseguenza, nel 1964 egli non poté prendere parte alle riprese del film Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini, girato in varie località dell’Italia Meridionale e nell’area del Mediterraneo. L’autore di Le ceneri di Gramsci aveva prescelto Ženja per interpretare il ruolo più importante, quello di Gesù Cristo. Nel 1968, Evtušenko compì una delle scelte più temerarie della sua vita, ancora una volta senza tagliare i ponti con gli ideali del socialismo. In difesa e a sostegno della Primavera di Praga, condannò categoricamente l’intervento militare sovietico in Cecoslovacchia. Per il focoso Ženja, dotato di quelle qualità di buonsenso e lungimiranza che avrebbero dovuto possedere i politici, a sbagliare fu Brèžnev, non certo Dubček. Tra le molte testimonianze che attestano la martellante forma di persecuzione - soprattutto psicologica -, ai danni di Ženja, capace di far perdere la bussola alle persone più miti ed equilibrate, citiamo quella dello scrittore Melo Freni, a proposito di un viaggio di Evtušenko in Sicilia: “In una sera d’estate del 1968, con Evgenij Evtušenko passeggiavamo per Mondello, a Palermo. Egli s’accorse di essere seguito da due agenti segreti che, infatti, a una certa ora, esibito il riconoscimento della polizia sovietica, gli intimarono di doversi ritirare. Lui non reagì, si sdraiò sul marciapiedi e disse loro che potevano portarlo di peso, sollevandolo, in albergo. Di fronte a tanta gente e alla curiosità suscitata, non ne fecero nulla, e lui rimase sul marciapiedi fino all’alba.” (Gazzetta del Sud, 29.11.2006). Nel 1971, ai funerali dell'ex-Segretario del Partito Chruščëv - sconfessato e scansato da tutti, sia dai politici che dagli intellettuali (allineati e non) -, si presentò il solo Evtušenko. Si trattò d’una presa di posizione che non passò affatto inosservata, carica di conseguenze. Lungi dal poterlo perseguitare e punire, il regime doveva limitarsi a subdoli controlli - non era una forma di persecuzione anche questa? -, costretto com’era a tollerare questo esuberante personaggio che si permetteva, con estrema disinvoltura, d’alternare insistenti licenze poetiche antigovernative con lodi misurate e motivate - mai spropositate - nei riguardi di Lenin e di Jurij Gagarin, della rivoluzione di Cuba e di Ernesto Che Guevara. Uno stile di vita spregiudicato capace di rompere tutti gli schemi e di tirar fuori gli scheletri dagli armadi, idealmente assimilabile all’anarchica insofferenza dei cospiratori antizaristi che si riconobbero nel movimento bolscevico. Al PCUS faceva comodo, in un certo senso, fingere di “largheggiare” nei suoi confronti, per presentare al mondo l’immagine d’un Paese disponibile e indulgente. Con il trascorrere degli anni, Evtušenko era divenuto l’intoccabile e involontario monumento in carne ed ossa di se stesso, lui che provava ripugnanza per qualsiasi assortimento di serpi e vermi annidati sotto la marmorea brillantezza dell’esteriorità. In ogni occasione d’incontro con la stampa - specie nel corso delle sue scorribande all’estero -, Ženja si è sempre mostrato pronto a definire nei dettagli la sua posizione, sorvolando su cattiverie di sorta. In ultima analisi, egli centrava in pieno l’obiettivo d’esasperare, rendendole bizzarre e stridenti, le altrui - non tanto le proprie - contraddizioni. Giunto in Italia per la consegna del Premio Grinzane Cavour 2005, dichiarò: “Al Cremlino piacevo quando scrivevo contro i fascisti finlandesi nel 1961, ma non potevano accettare un'opera iconoclasta come Babij Jar. Senza capire che le due cose non potevano esistere l'una senza l'altra. Lo stesso succedeva fuori. Neanche l'Occidente ama i suoi dissidenti. Vorrebbe che esistessero solo da noi. Preferisce il pensiero omologato, da una parte o dall'altra.Difficile capire come fosse possibile che io protestassi contro il Cremlino e al tempo stesso contro il Vietnam. (…) Il XX secolo si è rivelato assassino, ha finito con l'uccidere molti dei nostri ideali. Non è semplice nostalgia del passato, no. La Rivoluzione in Russia aveva portato con sé molte promesse, promesse di pace, lavoro, di fratellanza e uguaglianza. Promesse tradite.” (la Repubblica, 22.01.2005). E’ palpabile il senso di sofferenza - non certo di compiacimento - con cui il Poeta condannò gli inganni che portarono al declino e alla rovina degli ideali del socialismo. Né gli si possono addebitare accuse di opportunismo, ossia di camaleontismo, in relazione alle contingenze del momento. Ženja non innalzò mai - tutt’altro - apologie né odi in onore di gerarchi del Partito né tantomeno di Stalin, diversamente da altri pur valentissimi intellettuali e poeti. Sarà il caso di ricordare brevemente le terribili traversie dalle quali venne mortalmente travolto il poeta Osip Mandel’štam, reo d’aver composto gli straordinari, ma burrascosi, versi di Viviamo senza più fiutare sotto di noi il paese (1933), che diedero il via alla sua odissea segnata da anni di detenzione, torture e confino, provocandone la morte prematura. In difesa di Mandel’štam scesero in campo Anna Achmatova e Boris Pasternak, i quali si rivolsero ad influenti notabili affinché intercedessero presso Stalin. Tra questi Bucharin, direttore dell’Izvestjia. Colpito dall’interessamento di Pasternak - conosciuto per la sua fiera riservatezza -, Bucharin scrisse a Stalin la frase ammonitrice: “I poeti hanno sempre ragione, la storia è dalla loro parte”. Stalin decise allora di telefonare personalmente a Pasternak, quasi per rassicurarlo: “Il caso Mandel’štam è in corso di revisione. Tutto andrà bene. Ma è davvero un maestro?” Pasternak gli rispose: “Non è di questo che si tratta”. Stalin, di rimando: “Di che si tratta, allora?” Pasternak replicò che avrebbe voluto parlargliene a voce. Stalin insistette: “Di che cosa?” Pasternak, placido: “Della vita e della morte”. In effetti, più che la poesia, era in gioco la vita o la morte di Mandel’štam. A queste parole il “montanaro del Cremlino” (così definito da Mandel’štam), stizzito, riagganciò il telefono. L’intervento di Pasternak fu determinante, poiché ne derivò l’insperata sentenza: “Isolarlo, ma tenerlo in vita”. La vicenda conferma quanto Pasternak fosse stimato e rispettato da Stalin. Quattro anni dopo, Mandel’štam, malato e ridotto in totale miseria, volle dedicare al dittatore sovietico l’opera riparatrice Ode a Stalin (1937), con la quale s’era illuso d’entrare nelle grazie del potere. “Lui è tutta franchezza, riconoscimento / (…) Con gli occhi di Stalin una montagna è sospinta.”, cantò. Nel 1938, Mandel’štam inviò il componimento all’Unione degli Scrittori, chiedendone la pubblicazione. Per quanto giudicata dalla critica carica di pesanti ambiguità e doppi sensi, si tratta a tutti gli effetti di un’Ode incensatrice dettata dalla disperazione, un inno tra l’angelico e il demoniaco, selvaggio e flaccido com’era nello stile del miglior Mandel’štam. Brodskij colpì nel segno quando scrisse che siamo in presenza non di “una satira in forma di ode”, ma di una vera e propria “ode portata ad un tale estremo da diventare satira”. Involontariamente, chissà. L’eclatante titolo Ode a Stalin (1953) sarà ripreso da Pablo Neruda per il suo caloroso, convinto e sperticato omaggio a Iosif Džugašvili in occasione della sua scomparsa. Un tributo fuori tempo massimo, dato che persino in Russia il castello di crimini e menzogne edificato dal despota stava miseramente crollando. Eppure, né a Mandel’štam né al Premio Nobel cileno sono state mai mosse critiche di ars oratoria sposata con intenti compromissori di sottomissione e/o di adulazione politica. In un tale arcipelago di terrore, finzioni e ricatti, Evtušenko si mostrò, a seconda delle circostanze, come uno sfacciato istrione, un indomabile burlone… Tutto sommato, era e si sentiva un incompreso, un cane sciolto, uno di cui era meglio diffidare. Anche per questo, convertiva il suo odio/amore per l’incancrenita situazione politica, sociale e culturale in irata e dolente arguzia, talvolta in una sfrontatezza che sapeva di dissennatezza, disprezzo e insolenza. Alla modella colombiana Dora Franco, conosciuta in Sud America nel 1968, che gli chiedeva: “Com’è la tua Patria, / la Russia?”, lui prontamente rispose: “Uguale a Macondo / ma un po’ più grande…” (Dora Franco. Confessione tardiva. ES, Milano, 2012). Quella con Dora Franco fu una travolgente relazione d’amore che s’interruppe proprio perché Ženja, ad un certo punto, iniziò a sospettare che la modella potesse essere una spia al soldo dell’URSS. Erano i giorni terribili dell’invasione sovietica della Cecoslovacchia. Alla fine tutti i sospetti caddero, ma ormai la loro unione era compromessa. Nella silloge Nel paese di Come Se, Evtušenko spiegò in maniera sbalorditiva l’altrettanto strabiliante capacità di salvarsi, fortunosamente, dalle persecuzioni staliniane: “Come sopravissi negli anni staliniani? / Perché a volte uscii / dalla finestra del nono piano / Sul cornicione di casa di un attore, alquanto seduttore, / camminavo, condotto da chi non si sa / tenendo un bicchierino di vodka in mano.” Sempre nella raccolta in questione, si cimentò nel dipingere la “demenza abituale” dei Comeseianti, ovvero degli abitanti dell’ex-Unione Sovietica: “Io vivo in un Paese di nome Come Se / dove, per quanto strano, / una via Kafka non c’è, / dove anche Gogol’ come se letto fosse / e come se Dostoevskij pure, / come se talvolta si amasse, / ma come se non senza volgarità.” (Nel paese di Come Se, Viennepierre, Milano, 2006). Come accennato, Pier Paolo Pasolini nutriva sentimenti di ammirazione nei confronti del Poeta siberiano, tanto da chiamarlo ad interpretare il ruolo di Cristo nel lungometraggio Il Vangelo secondo Matteo. Ma era un’attenzione fortemente critica, in parte prevenuta. Le sue perplessità derivavano dall’idea d’un tacito ed ieratico - perché no, indisponente - ruolo di “predestinato” che attribuiva a Ženja nel bene e nel male, partendo dal binomio letteratura-vita ed inserendo in tale visione anche lo spettacolo e il cinema (non dimentichiamo che Ženja è stato drammaturgo, sceneggiatore, regista e attore cinematografico). La scelta, caduta su di lui per il personaggio del Messia, sintetizzava in pieno il concetto che il Poeta friulano s’era formato del collega d’oltrecortina. Dieci anni dopo la realizzazione del film a cui il Poeta russo dovette rinunciare, usciva la raccolta poetica Le betulle nane (1974) di Evtušenko, con l’Introduzione all’edizione italiana firmata da Pasolini. Questi non si limitò a formulare un “inventario” - tanto sorprendente quanto discutibile - dei “limiti” umani ed artistici di Evtušenko. Se analizziamo il testo, ci accorgiamo come Pasolini intese ascrivere ad Evtušenko quelle inafferrabili lacerazioni dovute agli “accidenti dei tempi”, a quel maligno vortice di necessità storiche che egli era solito attribuire a determinati personaggi, in ogni epoca storica. Per Pasolini, Ženja non poteva, né doveva, sottrarsi all’ineluttabilità d’un destino sostanzialmente negativo, come era successo ai maggiori poeti russi, a cominciare da Puškin per finire con Block, Majakovskij, Chlebnikov, Esenin, Mandel’štam, Cvetaeva. Gli sembrava impossibile - soprattutto ingiusto - che Evtušenko ogni volta la facesse franca, senza essere schiacciato dalle atrocità del regime. Pasolini adorava i vinti e detestava i Superman, solo che Evtušenko non era né un vinto né un Superman. Pasolini immaginava che, prima o poi, l’autore de Gli eredi di Stalin sarebbe dovuto cadere, anzi lo vedeva già come un’anima in pena, uno spettro. Persino i suoi “gesti così carichi di misteriosa felicità e vitalità” possedevano, secondo Pasolini, la cifra esatta e l’“estraneità” propria dei “morti”, decretò. Ma l’attaccamento alla vita di Ženja era tale che persino riguardo alla morte per suicidio - di personaggi famosi e non -, aveva elaborato una teoria tutta particolare, impensabile: “Sappiate che esistono solo omicidi. Al mondo nessuno mai si è suicidato.” Invero, quell’Introduzione non si direbbe scritta soltanto per quel libro e per quell’autore… Il vero tema degli appunti pasoliniani era l’indefinibile condizione di remota lontananza, di estraneità che Pasolini ravvisava nella galassia comunista. Osservò: “La situazione storica dell’URSS è profondamente estranea”, e concluse: “L’estraneità dell’URSS è il vero contenuto della poesia di Evtušenko.” Le cupe cadenze della scarna elencazione - quasi un breviario funebre - indicano come egli avesse tristemente elaborato quel giudizio da tempo. Ma nell’atteggiarsi a profeta di sventura, scantonò più volte, specie nel riferimento alle future generazioni: “Più facile prevedere cosa ne sarà dei figli. Saranno figli fortunati. Non avranno conosciuto la breve e atroce stagione del consumismo, né quella della coincidenza tra Rivoluzione e Potere.” Niente di più errato. La Russia di oggi è uno sfrenato Circo Barnum del consumismo e della volgarità, come se non più degli Stati Uniti. Forse, l’intransigente utopista era proprio lui, Pasolini, giacché pretendeva un’assoluta “purezza” dagli ideali del socialismo, a costo di doverli ricusare in toto. Sappiamo che perfezione e purezza non sono di questo mondo. Non sopportava la rigogliosa elasticità mentale di Evtušenko, il suo scalpitante dinamismo che bollò - con incomprensibile livore - “santità straziante”, uno status del tutto estraneo a Ženja. Già con Le ceneri di Gramsci, Pasolini aveva sancito – a cominciare dal Bel Paese - la morte di qualsiasi speranza di cambiamento della società in senso socialista. Le sue critiche masochistiche non erano prive d’una punta d’acredine nei confronti di coloro i quali, come Evtušenko, si confermavano degli indomiti don Chisciotte, propugnatori dei valori positivi sulla ferale negatività e sul gusto della sconfitta. L’ultimo Pasolini, insomma, pareva propugnare, senza via d’uscita, il trionfo della morte sulla vita. Era inorridito da tutto quanto potesse significare un “uso ottimistico della vitalità” e da qualsiasi “eccesso di eterosessualità”, come s’era imposto Evtušenko. In quelle pagine introduttive, inserì un’asserzione che voleva suonasse come una deminutio, e che invece l’impavido Evtušenko gradì enormemente, ringraziando mille volte Pasolini per una tale affermazione: “Notare il rovesciamento del sentimento dell’angoscia in un dato positivo.” * * * Nell’aprile del 1986, quando era ormai prossima e quasi inevitabile la dissoluzione dell’Unione Sovietica, Ženja fu ospite dello scrivente a Cassino (FR) per un’intera giornata. In seguito, ebbi modo di rincontrarlo più volte. Ci rivedemmo con maggior calma a L’Aquila nel 2002, in occasione della cerimonia del Premio “Laudomia Bonanni”, a lui assegnato. Era presente Evelina Pascucci, la sua “storica”, valente e affezionata traduttrice italiana. Le memorie del mio sodalizio con il grande Maestro sono raccolte nei due volumi "Nel Tempo. A Ženja" (Dismisuratesti, Frosinone, 1998) e in “Evgenij Evtušenko, Cantore dei mali del mondo. Riflessioni su ‘Se tutti i danesi fossero ebrei’, Opera teatrale inedita” (Centro Culturale Paideia, Cassino, 2002). In quell’afosa domenica primaverile - era il 20 aprile 1986 -, riuscii nell’improba impresa di “costringere” il Poeta - invero, Evtušenko a stento obbediva a se stesso - a mantenere fede ad un’antica promessa: visitare l’Abbazia di Montecassino e la Città Martire. Di ritorno dagli Stati Uniti e prima di rientrare a Mosca, s’era fermato per alcuni giorni a Roma, dove aveva una serie di appuntamenti. Negli U.S.A. aveva presentato in ben diciotto States - nel corso d’una sobria e tiratissima tournée, durata circa un mese e mezzo -, il suo film autobiografico Giardino d’infanzia. Al suo apparire nel 1984, il film era stato stroncato dalla Pravda, in quanto giudicato non in sintonia con i canoni del realismo socialista. “Sono distrutto dalla fatica” - mi aveva confidato Ženja per telefono un paio di giorni prima – “Per questo, non desidero incontrare né giornalisti né autorità”. Feci di tutto per accontentarlo: la sua permanenza a Cassino fu di assoluto riposo. Nel corso d’una rapida visita al Monastero benedettino, seguita da quella, assai più meditata e sofferta, al Sacrario Militare Polacco, il Poeta, visibilmente colpito, ad un tratto ebbe una reazione indignata alla vista di gruppi di turisti che si aggiravano, pittoreschi e chiassosi, tra le lapidi dei caduti polacchi. Sempre emotivo e passionale, non riuscì a trattenersi dall’esclamare, in un intercalare frammisto di termini italiani e spagnoli: “Sono queste le miserie della guerra in tempo di pace!”. Perché questi pietosi mausolei - chiarì una volta rasserenatosi - non sono altro che barbare testimonianze della furia sterminatrice dell’uomo, mostri di cui dovremmo vergognarci, non porli in bella evidenza sui dépliants turistici. Capii d’avere di fronte a me un vero genio, uno dei più grandi del nostro tempo, il cui pensiero era assolutamente rivoluzionario, talmente innovativo da sembrare equivoco e disorganico. Rammentai ciò che aveva scritto parecchi decenni prima: “Non ci sono monumenti a Babij Jar. / C’è un dirupo scosceso, come rozza pietra tombale.”. In realtà, al Poeta di Zima non interessava affatto che a Babij Jar ci fossero dei volgari monumenti; quell’assenza era il segnale dell’indifferenza generale di fronte allo sterminio degli ebrei. Anche i versi d’apertura de Gli eredi di Stalin recano tracce evidenti d’una radicata avversione nei confronti dei mausolei: “Silenzioso era il marmo. / In silenzio brillava il vetro.”. Nel 2006, vent’anni dopo la sua venuta a Cassino, uscì la silloge Nel paese di Come Se (op. cit.). Nella lirica Il mio monumento egli confermò il disprezzo per la monumentalità dei sepolcri: “Non amo che mi si innalzi un monumento / che in un paese del terzo mondo in qualche dove lo sistemino, / dove, battendo col pugno da grande potenza, / la miseria nascondono furtivi / (…) / Non necessito di un monumento. / Mi occorre solo / che dopo morto / il paese mi sia restituito.” Notare il ricorrere del termine “miseria” – in senso denigratorio – riferito alle pietre tombali, termine adoperato anche a Cassino nel 1986. In quella medesima silloge, ne I monumenti non emigrano, ironizzò sulle maligne illazioni di quanti gli rimproveravano d’aver abbandonato la Russia, avendo accettato una cattedra negli USA. In realtà, egli si recava di continuo in Patria, soprattutto nei mesi estivi. Nel tardo pomeriggio, nell’accomiatarsi per fare ritorno nella Capitale, mi confidò con un tono inquieto e abbattuto, quasi distante, il suo totale appoggio alla perestrojka (ristrutturazione) e alla glasnost’ (trasparenza) di Michail Gorbačëv: “Lui ha molti, molti nemici in Russia”, rivelò preoccupato, calcando l’accento e ripetendo più volte l’aggettivo “molti”. Sottolineò di considerare le sorti del Leader del Cremlino strettamente legate alla sopravvivenza dell’URSS. Lodò gli ideali di libertà, giustizia e fratellanza del socialismo democratico di cui Gorbačëv s’era fatto paladino, facendo un accenno alla possibilità di candidarsi a deputato alle elezioni politiche del 1989. Come è noto, Ženja venne eletto alla Ду́ма (Duma) a furor di popolo. Inutile evidenziare che, se egli fosse stato un dissidente, non avrebbe mai compiuto un passo del genere. Infine, a sorpresa, proruppe: “Oltre il socialismo della libertà… oltre la giustizia… la giustizia sociale, non c’è altro. Solo il capitalismo con lo sfruttamento, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo!”. Anche qui, ripeté diverse volte le parole “giustizia” e “sfruttamento”. Dietro lo splendente azzurro di quegli occhi che mi fissavano, vidi agitarsi milioni di esseri sofferenti che il Poeta aveva conosciuto nel mondo, nel corso delle sue peregrinazioni. Era stato compagno di Che Guevara e di Fidel Castro, di Neruda e di Allende, di Gabo Màrquez e di Federico Fellini, ma anche di miserabili e vagabondi. Il quadro generale creatosi nell’URSS era, in realtà, estremamente convulso, imponderabile. In piena era Gorbačëv – insignito del Premio Nobel per la Pace nel 1990, soprattutto per la decisione unilaterale, da lui presa, secondo cui l’URSS non avrebbe mai più prodotto armi nucleari –, le resistenze contro i diritti civili e la libertà di espressione erano ancora fortissime. Basti pensare che l’impegnativo film di Evtušenko I funerali di Stalin, girato tra il 1989 e il 1990 e apertamente avversato dalle autorità sovietiche, fu proiettato per la prima volta in Italia nell’ottobre 1991, al Cinema Art Festival di Salsomaggiore Terme. Lo strazio troppo a lungo presagito e atteso, facilmente può tramutarsi - quando giunge l’ora del redde rationem -, in acre sarcasmo, in scoperto dileggio. Nel romanzo-fiume Non morire prima di morire (Baldini & Castoldi. Milano, 1995), che reca l’emblematico sottotitolo Fiaba russa, il Maestro di Zima ricostruisce i farseschi atti - quasi da rappresentazione teatrale - del tentativo di colpo di Stato ai danni di Gorbačëv, nell’agosto del 1991, da parte di cospiratori neo-stalinisti al Governo. E’ un romanzo geniale, straordinario, ingiustamente sottovalutato dalla critica. Vi troviamo passaggi scoppiettanti, esilaranti come il seguente: “Al mattino la Casa Bianca era circondata dai carri armati. Alla sera la Casa Bianca era difesa da quegli stessi carri armati.”. Una situazione tragicomica nella quale l’aspetto grottesco prepondera in misura talmente esorbitante - per quanto reale -, da somigliare ad una classica fiaba russa. E’ questo uno dei motivi per cui, con ogni probabilità, il terrificante spauracchio dell’U.R.S.S. – ovvero, l’Impero del Male -, si dissolse senza colpo ferire. Un contesto strampalato e bizzarro del quale soltanto il talento di Evtušenko possedeva le giuste chiavi di lettura. Nel mentre canzonava, ironizzando amaramente, la repubblica sovietica di Macondo, l’altra faccia – quella più posata e coscienziosa - dell’animo di Ženja si disperava per il crollo degli ideali a lungo accarezzati. Secondo qualificati studi e ricerche effettuate da accreditati studiosi, risulterebbe che il vero ispiratore della perestrojka e della glasnost’ sia stato proprio lui, Evtušenko. Anni dopo, nel ricordare le duecentomila persone radunatesi in silenzio per ascoltare i versi che, nei giorni del golpe, egli declamò dal balcone della Casa Bianca, stabilì un lucido efficacissimo confronto. Da un lato, le antiche aspirazioni coltivate dal popolo russo pur schiacciato dal regime, dall’altro la pacchiana grettezza della nuova Russia: “Quel che succede oggi è completamente diverso. Allora era una sfida al regime. I ragazzi si riunivano in piazza ad ascoltare le voci che il Cremlino voleva far tacere. Il frutto proibito. La libertà. Venivano a gruppi per trasferire sulla carta il suono effimero dei versi. Ognuno trascriveva una strofa, e alla fine il poema appena recitato si ricomponeva sulla carta, pronto per il samizdat. Da allora, tante volte nella mia vita ho affrontato il pubblico a tu per tu, negli stadi, nelle sale, nei teatri. Poi, d'un tratto, tutto è cambiato. Dopo il crollo dell'URSS i russi avevano perso il gusto per la bellezza. Il nuovo frutto proibito era la volgarità. Con la complicità della televisione, sui palchi più prestigiosi non c'era più arte ma canzonette da due soldi. I più grandi artisti del Paese riuscivano a radunare al massimo una ventina di persone. Io non mi sono mai arreso. Anche in quegli anni bui ho continuato a viaggiare in tutto il Paese, dagli Urali alla Siberia, e recitare versi.” (la Repubblica, 12. XII. 2007). Mettendo da parte le gratuite illazioni che si sgonfiano da sole, occorre precisare che, dopo la caduta di Gorbačëv, sono rimasti in sospeso - come occultati - dei cruciali interrogativi di fondo, che gli storici avrebbero dovuto affrontare immediatamente. Su tutte, una questione può aiutarci a comprendere meglio la posizione e la poetica di Evtušenko. Questi, formatosi negli anni di Chruščëv, intravide in Gorbačëv la possibilità - concreta, ma ardua - di realizzare il sogno mai abbandonato della sua giovinezza, quello d’un socialismo dal volto umano. Gorbačëv rappresentò, dunque, l’estrema tappa - quella conclusiva e finale - del lungo percorso intellettuale di Ženja: un itinerario onestamente lineare e coerente, conclusosi come era iniziato, senza un nulla di fatto sul piano dei risultati ma incredibilmente ricco di insegnamenti esistenziali e poetici. E’ risaputo che Gorbačëv intendeva riprendere - insistendo ancor più sul tema della libertà e fatte salve le difformità dovute al mutare dei tempi -, il discorso sventuratamente interrotto con Chruščëv. Come quest’ultimo, Gorbačëv sembrava riscuotere l’incondizionata fiducia del popolo e soprattutto delle nuove generazioni, attirandosi però la fatale disapprovazione del Politburo, fino a rimanere completamente isolato. Se ciò risponde al vero, ossia se all’interno della società sovietica esistevano da decenni indifferibili istanze di rinnovamento, perché mai i cittadini, ad un certo punto, voltarono le spalle a Gorbačëv? Insomma, come mai a Gorbačëv - a quarant’anni di distanza - toccò la medesima sorte di Chruščëv? Innanzitutto, gli eredi di Stalin erano rimasti tutti al loro posto - come aveva presagito, un dì, lo sbarazzino ma geniale Evtušenko -, in attesa di poter riprendere le redini del potere. Il popolo russo, dal canto suo, era talmente stanco e disilluso che, di fronte alle prime difficoltà, non fu affatto propenso ad imbarcarsi in avventure di cui nessuno immaginava gli esiti. Si potrebbe quasi affermare che l’inarrestabile declino dell’URSS era iniziato con il fallimento del primo progetto di riforme, quello di Chruščëv. Ormai, si aprivano nuovi scenari: l’avvento di Eltsin avrebbe consentito di cambiare completamente registro. Troppo allettante era il miraggio d’uno stile di vita all’americana: un eden era in attesa lì, dietro l’angolo. Era divenuto da decenni un leit-motiv il giudizio dei partiti comunisti d’Occidente - con in testa quello italiano -, i quali denunciavano “l'esaurimento della spinta propulsiva nata dalla Rivoluzione d'Ottobre”: parole di Enrico Berlinguer. E’ quanto predicava Evtušenko, tra alti e bassi tuttavia fiducioso che si potesse trasformare in senso libertario il monolitico apparato dell’URSS. Per il giramondo e cittadino del mondo Ženja, fedele a Gorbačëv e come questi considerato, per ignoranza o mala fede, responsabile della fine dell’URSS - mentre la responsabilità storica di ciò ricade, indiscutibilmente, sul nuovo arrivato Eltsin -, mettere un punto fermo nella propria esistenza, per motivi pratici di lavoro e di sussistenza, in Russia o in capo al mondo non faceva più molta differenza. Difatti, all’acclamato Eltsin succederà l’ex-capo del KGB Putin, il potente nuovo zar del Cremlino, circondato da schiere di portaborse ex-brežneviani, gattopardescamente riciclatisi nelle vesti di manager e imprenditori. Evtušenko, sempre alla ricerca del lato positivo delle cose e in difesa dell’immagine della Patria, s’ingegnò per trovare una qualche giustificazione a tale scempio, sempre invocando il violato valore degli ideali. Così si espresse: “Putin, come la Russia, sta lottando per trovare il suo cammino in un momento in cui gli ideali sono stati frantumanti e regna un senso di espiazione.” In occasione delle elezioni politiche svoltesi nel 1995, vinte dai comunisti di Zjuganov, uscì in prima pagina sulla Komsomolskaja Pravda una poesia di Ženja nella quale l’autore, rivolgendosi agli elettori neo-comunisti, ribadiva la sua posizione contraria al vecchio assetto totalitario e favorevole, invece, ad un socialismo libertario: "Voi chiamate nel passato me / col filo spinato volete impormi la pace / e col nonno Lenin anche se / egli creò non il tempio ma il lager. / Fui fedele nipote di Lenin / ma oggi son felice della libertà / dalle mani che con dolore toccavano l' anima / e frugavano senza pietà.” Ancora nel 1992, il feroce clima di odio e sospetto in Russia non s’era affatto placato. Telegrafico il reportage di Enrico Franceschini da Mosca, per il quotidiano la Repubblica: “L'Unione Scrittori è nel caos totale, come il resto del Paese, contesa da opposte fazioni di letterati. A febbraio, un gruppo di scrittori filocomunisti, chiamati bondarzvy - dal nome del loro capo Jurij Bondarev, ha bruciato un fantoccio con le sembianze del poeta Evgenij Evtušenko nel giardino dell'Unione, sull'ulitsa Vorovskogo. Poi Evtušenko ha vittoriosamente guidato una rivolta contro la vecchia dirigenza dell'Unione, accusata di avere appoggiato il tentato golpe dell'agosto '91. Quindi il potere è stato preso da Jurij Chernichenko, ex-direttore della Literaturnaja Gazeta, che ha accusato Evtušenko di essere un ignobile reazionario. E dopo l'ultimo, sovraeccitato congresso, la lotta continua. La crisi non è solo economica. Lo scrittore era sempre stato, in Russia, una figura centrale nella vita politica, sociale, artistica della nazione, che fosse un sostenitore del regime, o un dissidente. Ma oggi non ha più identità.”(la Repubblica, 18.07.1992) Avvenne così che, nel 1993, Ženja decise di trasferirsi con la famiglia negli Stati Uniti, a Tulsa, città dell’Oklahoma, dove gli era stata offerta una prestigiosa cattedra di Letteratura russa e cinematografia all'Università. Il Poeta raccontò in un’intervista (Brandy McDonnell, in The Oklahoman, February 8, 2004) che, recatosi a Tulsa per i primi contatti in merito alla docenza universitaria, stava girovagando in un centro commerciale, quando udì il motivo de Il Tema di Lara di Maurice Jarre, dal film Il Dottor Živago. Era mezzogiorno in punto. “Sto delirando”, pensò Ženja, stranito dalle troppe incertezze sul futuro della sua famiglia sballottolata per il mondo. Apprese in seguito che ogni giorno alla stessa ora, in quel centro commerciale, veniva trasmessa quella colonna sonora. Figurarsi: il romanzo di Pasternak in Russia era ancora un oscuro oggetto del desiderio, un tabù, mentre in America spopolava persino nei supermercati! Per il romantico e fatalista Ženja, fu un segno del destino. Seguitò con certosina pazienza a lasciare nitide tracce del suo modo unico di interpretare l’evolversi della situazione politico-culturale, in Russia e nel mondo, soprattutto attraverso dichiarazioni rese alla stampa, in un ininterrotto dialogo con i suoi estimatori e lettori. Nel 2007, di passaggio per l’Italia, così si espresse dimostrando una logica sempre stringente e chiarificatrice: “Nessuno potrà impedirmi di dire che in quel che accade oggi c'è una grande responsabilità dell'Occidente e in particolare degli Stati Uniti, della loro politica estera e militare. (…) La Russia non è un Paese appeso in cielo. Tutto quello che accade oggi nel mondo è intimamente connesso. Le basi militari americane spuntano come funghi nei Paesi ex satelliti dell'URSS, e perfino in quelli che un tempo facevano parte dell'Unione Sovietica. Il nostro giardino di casa è infestato dalle armi americane e si parla di dispiegarne sempre di più. In fin dei conti la Russia, oggi come oggi, non ha basi militari in nessun paese del mondo, ma deve fare i conti con quelle altrui piazzate dietro l'angolo. E c'è di più: i Paesi occidentali continuano a fare la lezione a Mosca, ogni incontro al vertice è occasione per sottolineare che la Russia non è abbastanza democratica. Ma poi, da che pulpito viene la predica. Ditemi voi il nome di un Paese che sia un vero esempio di democrazia, un modello di cui da cittadino del mondo io possa andare fiero.” (la Repubblica, 03.12.2007). Una volta indossato l’habitus del docente – sempre sui generis, non certo da cattedratico -, decise di dare vita ad un antico progetto, finora mai realizzato da altri, al quale si è dedicato per anni, anima e corpo. Ideò e curò una completa e ben articolata antologia della Poesia russa, dalle Origini ad oggi. Nel novembre 2013, da Tulsa mi giunse il seguente messaggio: “Caro Francesco, attraverso tanti anni, dolori, joie, tu accompagni me con tua tenerezza per mi poesia, per me stesso assieme con mia sorella spirituale Evelina Pascucci. Ultima scelta dei miei poemi su rivista POESIA era tanto bella. Mille grazie a voi, il vostro Zhenya. Sono usciti due primi volumi della mia antologia "Dieci secoli di Poesia russa". Io ricevuto il Premio del libro migliore dell’anno 2013. Sono felice. Saludos de Masha.” Nel frattempo, aveva dato alle stampe la sterminata prosa memorialistica intitolata i Šestidesjatniki (“Sessantisti”, ovvero Quelli della generazione degli anni Sessanta), un volumone di oltre mille pagine che in Russia ha venduto finora circa due milioni di copie (in Italia, è in corso la traduzione a cura di Evelina Pascucci, mentre si è alla ricerca d’un editore qualificato disposto a pubblicare un’opera così ponderosa). E’ una sorta di autobiografia dal taglio giornalistico, che aiuta finalmente a chiarire i tanti misteri della storia recente, non soltanto russa. Anche nella grafica di copertina, il libro richiama idealmente i temi e lo stile dell’Autobiografia precoce del 1963. A dispetto dell’età avanzata e della malferma salute, Evtušenko ha proseguito fino ai suoi ultimi giorni ad infiammare gli animi degli amanti della poesia, partecipando a meeting e concerti in tutto il mondo: “Resto un grande idealista e lottatore, un grande sognatore”, dichiarò orgoglioso (la Repubblica, 16 marzo 2008). Memorabile il recital tenuto a Barcellona nel maggio 2016, insieme con il poeta spagnolo Joan Margarit dinanzi ad un pubblico vastissimo, letteralmente in visibilio. C’è da credere che ora, dopo la sua scomparsa, il clamore sempre sollevato da questo personaggio così fastidioso ed ingombrante - demonizzato o santificato a seconda dei momenti epocali -, ceda il passo ad uno studio più serio e approfondito della sua vastissima Opera: oltre centocinquanta pubblicazioni, delle quali appena una trentina tradotte in italiano. Una produzione che, come abbiamo cercato di chiarire, possiede un’intima ed esemplare – non certo matematica (ma la letteratura non è una scienza esatta) - linearità di fondo. Nel Poeta di Zima, la cui vena dissacrante e infuocata, malgrado talune reciproche incomprensioni, può essere accostata a quella di Pier Paolo Pasolini – in quanto entrambi attaccarono sempre gli uomini di potere, mai le istituzioni -, coesistono intimamente, fino a fondersi alla perfezione, due anime. Da un lato, il sentimento di pietà per le miserie umane, dall’altro l’irrefrenabile bisogno di denunciarne le perversioni con un impeto bruciante, accompagnato da un’ironia caustica e canzonatoria. Passione e provocazione, dunque, dal cui incessante confronto-scontro nascono istintivi moti di ribellione contro ogni sorta di sopraffazione, da intendere in alcune opere - specie nelle più recenti - come un beffardo senso di sublimazione del mistero dell’esistenza. Un atteggiamento complesso, frutto d’una superiore intelligenza e d’un fervido spirito critico, che vanno a cozzare - a ben vedere - contro il bieco nichilismo oggi imperante, quel catastrofismo che devasta buona parte della cultura e della letteratura nella società contemporanea, sia in Occidente che nei Paesi ex-socialisti. Alcuni critici hanno definito, in maniera ingenerosa e superficiale, "scontati e retorici" molti versi del Poeta siberiano. Non è così. Evtušenko per primo ironizzò su osservazioni del genere, innescando un fenomenale meccanismo di autoironia. Nella citata Il mio Epitaffio, così dipinse se stesso e la sua poesia: “Dicitore, donnaiolo, fanfarone. / Non se ne salva una riga: falsità, ipocrisia, inganno.” (da Romanzo con la vita e altre poesie, op. cit.). E' una poetica da studiare con estrema attenzione. Innanzitutto, un raro pregio del Poeta del disgelo è la sua estrema linearità e nettezza. A livello stilistico, sono versi limpidi, solari e ben comprensibili a tutti, ossia non astrusi o contorti come - viceversa - accade di riscontrare in tanti autori che oggi vanno per maggiore: più sono indecifrabili, più vengono innalzati a “grandi poeti”. Sul piano strettamente concettuale, nonostante la complessità e la corposità di molte enunciazioni, pròvvide di significati sapienziali, Evtušenko riesce sempre ad esprimere con trasparenza contenuti positivi eticamente formativi e validi, capaci di sprigionare una inestinguibile forza interiore tradotta in un linguaggio brillante e asciutto. Sin da ragazzo, durante la guerra - quando fu abbandonato dapprima dal padre - un geologo unitosi con un’altra donna e partito per una spedizione in Kazakistan -, e poi anche dalla madre – una cantante lirica al seguito delle truppe sovietiche sul fronte -, Ženja aveva imparato, amaramente, a considerare la vita come un’incognita, una sfida, una scommessa. Per lui, neppure la morte meritava d’essere presa troppo sul serio. A volte con inflessioni sommesse, in altri casi sprezzantemente, cantò: “Non sono uomini che muoiono, ma mondi. (…) / Gli uomini se ne vanno… e non tornano più. / Non risorgono i loro mondi segreti.” (Poesie, Newton Compton, Roma, 1972). “Essere nato è un colpo di fortuna. / (…) Una vita seconda non verrà, / e poteva non esserci la prima.” (Le betulle nane, Mondadori, Milano, 1974). “Non mi hanno ancora ucciso e c’è un motivo: / non sono abbastanza saggio per questo onore.” (Fukù!, op. cit.). Infine: “Morirò non per odio, / ma per amore insostenibile dal cuore.” (Arrivederci, bandiera rossa, op. cit.). Cervaro (FR), aprile – giugno 2017 |
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