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Se in Sul viso umano (2001) Danilo Mandolini si
era soffermato su un funerale di vittime Kosovare, assassinate dalle milizie
serbe, ora è la scomparsa di Muhammad Al-Dura, avvenuta all’incrocio di Netzarim
il 30 settembre 2000 – uno degli infiniti misfatti sconosciuti dalla storia, a
dare l’input per riflessioni accorate sulla “cenere immemore dei morti”,
ove la “sola sopravvivenza del silenzio | sembra una scheggia del futuro ed
invece | è un’immagine riflessa del passato.”.
Ma l’osservazione del “vuoto che non si vede”, ovvero dei
microcosmi dominati dall’odio e dalle guerre – “dei consumi, di culture, di
religioni e degli eserciti” sembra essere un giustificato “pretesto” per
osservare il “fragile delirio della vita” col necessario distacco, ma anche con
stanca e disgustata partecipazione, in un misto di “apatia e foga”. Si comprende
allora come “schivare ed esplodere frasi” rientri in un deliberato progetto di
straniamento e di rifiuto della “compiuta e feroce collusione | tra le passioni
degli uomini e l’idea del possesso”.
E’ “nell’intimo inviolabile | della ragione – il cui
“corpo smagrito” resta impotente dinanzi al desiderio di conoscere e dominare –
che Mandolini individua “la distanza da compiere”, il tracciato utile da
percorrere per “trovare | le origini | di quell’istinto che ci è dentro, | di
quel rancore che ci domina”.
Poesia forte e a tratti dura, impietosa, vicina alla
lezione dell’espressamente citato William Butler Yeats, ma anche, direi, a
quella del nostro Cesare Pavese: “Lascio chi mi guarda morire | nascosto nella
sua corsa”.
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Recensione |
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