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La parola trascesa e altri scritti

Emerico Giachery, il grande Maestro e Decano dei docenti di Letteratura italiana, non finisce mai di stupirci. Con l’entusiasmo d’un ventenne, ha dato alle stampe di recente un saggio magistrale, direi unico nel panorama letterario di questi inizi del terzo millennio.

Il titolo La parola trascesa e altri scritti si presenta “un po’ misterioso”, come riconosce nell’Introduzione lo stesso Giachery, il quale aggiunge: è il titolo che “mi piacerebbe incidere nel cartiglio araldico di una poetica critica come la mia, illuminata da una fede irriducibile e magari solitaria, attraverso anni e lustri ad essa troppo spesso avversi, nella ricchezza e tensione ontologica della poesia.”

Emerico Giachery tiene a sottolineare come il carattere saliente della sua incessante ricerca consista in una “sostanziale, implicita ricchezza simbolica che - anche fuori di una dichiarata poetica simbolista - rende, per così dire, irradiante il segno”.

In perfetta sintonia con il pensiero di Rosario Assunto, da Giachery considerato “pensatore e studioso a me particolarmente caro e consentaneo”, i cui testi vengono esaminati a più riprese nel corso della trattazione, l’autore si libra inseguendo con incrollabile tenacia l’idea d’una poesia e, più in generale, di una letteratura che sia ricca di “echi, di valore supplementare, evocativo, soprappiù di senso”.

Tutto ciò in linea, altresì, con la misterica esplicitazione di Mario Luzi: “La parola, a un dato momento, a un certo individuo, si investe del compito di significare al di là del suo normale uso comunicativo.” (da Vicissitudine e forma, 1974).

Uno studio così arduo e complesso ha imposto dei costanti e necessari riferimenti ai grandi classici del pensiero universale, da Croce ad Auerbach, da Adorno a Barthes, da Gadamer a Heidegger, da Novalis a Spitzer a tantissimi altri, insieme con il recupero degli insegnamenti e delle opere di insigni studiosi e cattedratici anch’essi dimenticati come Bo, Contini, Flora e Fubini.

Si tratta di scritti fondamentali che solo in rare occasioni vengono ristampati, e che pertanto faticosamente riusciamo a reperire in polverose biblioteche, libri che quasi nessuno legge più, per quanto siano in tanti a citarli - spesso a sproposito -, sfoggiando un’erudizione fuori luogo che contrasta con i valori dell’alta cultura. È per questo che Giachery nella sua eccezionale disamina sembra invitare i lettori, con garbo e umiltà, a riscoprire non tanto le proprie insostituibili pubblicazioni, quanto i testi degli altri colleghi di volta in volta presi in esame.

La dimensione “simbolica” della poesia presuppone una convinta riscoperta della visione orfica della letteratura. Ma Giachery, che pure si dichiara felice della “rivalutazione del sublime” e del tanto “biasimato mito” inteso come “intima struttura, e non già estrinseco orpello, della forma artistica”, tiene a precisare che non è affatto sua intenzione “sminuire il valore della letteratura realistica che ci ha donato tanti capolavori”. Ciò che egli vorrebbe veder scomparire è “l’arroganza totalizzante, il terrorismo invasivo di certe ideologie e mode.”

A questo punto dell’Introduzione, Giachery intraprende una rivisitazione semantica - insieme poetica e filosofica - del titolo assegnato al volume, per illustrare quali tesori nasconda la “parola trascesa”. Inizia così da Sant’Agostino: “transcende te ipsum”, per passare a Heidegger: “l’Essere è il trascendente puro e semplice” (Essere e tempo), e infine alla Divina Commedia: “Colui lo cui saver tutto trascende” (Inferno, VII, 73), ma anche “com’io trascenda questi corpi lievi” (Paradiso, I, 99).

In Dante il trascendere è legato all’idea di lievità, di leggerezza. Ed è quanto, sette secoli dopo, ritroviamo in Italo Calvino, il quale nelle Lezioni americane – ricorda Giachery - auspicava per il Terzo millennio il dono della leggerezza come antidoto “contro la pesantezza, l’inerzia, l’opacità del mondo”. Da Calvino ad Alberto Savinio: “Gli uomini di mente profonda si avviano verso una serenità sempre maggiore, verso una sempre maggiore leggerezza.” (Scatola sonora, 1955). Ma fu Nietzsche a convertire “la volontà di potenza in grazia e levità”, per cui Zarathustra “è il danzatore, il lieve”. E ancora Kundera, il cui celebre romanzo sempre Calvino lucidamente definì: “L’Insostenibile Leggerezza dell’Essere è in realtà un’amara constatazione dell’Ineluttabile Pesantezza del Vivere”.

La lunga Introduzione passa in rassegna in maniera capillare un’enorme quantità di autori: Guido Cavalcanti, Boccaccio, Kafka, Proust, Michaelstaedter, De Robertis, Baldini, Boezio, Walter Pater, John Ruskin, Petrarca, Origene, Trakl, Mandel’štam, Vasari, Guttuso, Ungaretti, D’Annunzio, Parronchi, Dionigi Aeropagita, Plotino e altri.

Dimostrando un’assoluta e disinvolta padronanza della produzione letteraria mondiale di tutti i tempi, Giachery segue un inusuale, originalissimo percorso: nei frequenti rimandi da un secolo all’altro, egli torna improvvisamente indietro per poi, a sorpresa, compiere nuovi scatti in avanti. All’autore pare non interessare, in questa sede, rispettare l’iter cronologico della storia letteraria, bensì sviluppare con estrema leggerezza – è il caso di dire – la sua amichevole e libera conversazione con i lettori assecondando le intime sollecitazioni del pensiero, che si dipana autonomamente divenendo, in tal modo, più che mai affascinante e coinvolgente.

Le pagine che seguono nascono dalla necessità di sviscerare le principali tematiche accennate nell’Introduzione. Sono riflessioni stupende che formano un tutt’uno estremamente compatto – anche se non era questo, specificamente, l’intento dell’autore -, in un mirabile intreccio di armoniose tematiche, come tasselli che l’autore dispone per configurare una propria “dichiarazione di poetica” tacita, eppure solenne. Giachery disdegna le frasi fatte, gli accademismi vuoti. Egli insegue una schietta “ricerca di senso” in empatia con il testo, in una tensione mai riducibile - scrive - a “schemi rigidamente storicizzanti e contro ogni forma di determinismo, di minimalismo riduttivo”.

Nel corso degli anni, Giachery ha sempre ribadito di ritenersi non un “critico”, bensì un semplice “interprete” dei testi letterari. E infatti, quasi tutti i capitoli ruotano intorno al ruolo dell’interprete: da Saggezza dell’interprete (Cap. IV) a Lo stile dell’interprete letterario (Cap. V) a L’interpretazione vocale dei testi poetici (Cap. VI).

L’autore dà costantemente la precedenza ai sentimenti e agli affetti, per questo il Capitolo I rappresenta un sentito omaggio a Rosario Assunto, al quale l’autore si sente legato da un’antica e fraterna devozione a Dante. In particolare, l’“appartenenza del Sommo Poeta al Medioevo come civiltà estetica di portata europea” induce a ritenere che “la nozione del Medioevo cristiano” rappresenti “una sorta di nucleo essenziale e vitale di una ideale, diremmo quasi perenne, quasi metastorica Europa, che speriamo continui ad operare nel crogiolo spirituale di questa tormentata e problematica (…) unificazione europea in piene doglie, ancor oggi, di laborioso parto”.

Il Capitolo II, Presenza e fascino di Orfeo, ricorda il giovanile, fondamentale approccio con il mito orfico scaturito dalla lettura dei primi numeri della rivista Quaderni internazionali di poesia, diretta da Enrico Falqui nell’immediato dopoguerra. Dal Poeta orfico per eccellenza, vale a dire Rainer Maria Rilke, la formazione del giovane Giachery proseguì attraverso lo studio di Fernando Pessoa, sempre grazie alla rivista di Falqui. L’autore ricorda quindi i versi di Cesare Pavese, tratti dai Dialoghi con Leucò: “È necessario che ciascuno scenda almeno una volta nel suo inferno.” Sollecitato dalla “convergenza possibile espressa da Leo Spitzer tra motivo e parola, motivo e opera”, Giachery apre il discorso alla musica, “in virtù dell’intima e indissolubile connessione” del mito d’Orfeo con l’arte musicale, e cita pertanto le opere di Monteverdi, Gluck, Mozart, Bach, Haydn, Stravinskij, Debussy e altri.

Dalla musica alla pittura: il fascino esercitato da Orfeo ha ispirato molti capolavori della storia dell’Arte a firma di Giovanni Bellini, Tintoretto, Rubens, Poussin, Brueghel il Giovane, il Grechetto, Tiepolo, Delacroix, Corot, Moreau, Spadini, Savinio e De Chirico, solo per citarne alcuni.

Il Novecento letterario italiano si aprì con uno dei massimi capolavori poetici di tutti i tempi, i Canti orfici di Dino Campana, un’opera che segnò decisamente, anche se in maniera piuttosto velata, la poesia del XX Secolo. Giachery menziona al riguardo un importante saggio di Roberta Ramella, Sulle orme di Orfeo, nel quale, come coinventori della poesia orfica in Italia insieme con Campana - o anche in qualità di suoi semplici eredi -, vengono indicati i tre poeti Luigi Fallacara, Arturo Onofri e Girolamo Comi. Si tratta di autori purtroppo caduti nell’oblio, tra essi il pugliese Fallacara a me particolarmente caro, al punto che lo citai nel mio poemetto Carte da gioco (2011).

Giachery conclude l’esposizione invocando una “scrittura ermeneutica che comporti anche descensus (al numinoso regno delle Madri, a sorgenti e crogioli sommersi del testo) e che non rimanga immune da musicale incanto, da sintonie con lo “spirito della musica”. È ferma convinzione dell’autore che “attraverso l’incontro con i testi, con i segni e i messaggi e le immagini del grande sogno che è la letteratura, finiamo per incontrare vita profonda, per incontrare vita universa in qualche suo fondamentale aspetto e nesso; compiamo passi, pochi o molti che siano, in un cammino di esperienza e saggezza, che è soprattutto itinerario iniziatico verso la comprensione del senso ultimo dell’esistere.”

Recensione
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