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Questa nuova edizione – a oltre cent'anni di distanza dalla sua prolusione del fondamentale discorso di Antonio Labriola L'università e la libertà della scienza, a cura di Nicola D'Antuono (Lanciano, Ed. Itinerari, 1998), offre l'occasione per sviluppare temi e discussioni già affrentate nell'articolo "Tecnocrazia, democrazia e cultura" (vedi Procellaria n. 1/1998).

La questione, antica come il mondo e da sempre irrisolta, finisce per riguardare in primis, per forza di cose, le discipline filosofiche, dal momento che il pensiero criticamente consapevole si identifica con la filosofia, l'ideale del sapere, come sosteneva Labriola. Paradossalmente, proprio la perenne attualità del problema fa sì che esso si sottragga all'impeto e al clamore dello scoop momentaneo, perché – notava sempre il filosofo Cassinate – "a differenza dell'embriologista, del fisico e del medico, le discipline in questione non hanno né cronaca, né bollettino delle novità".

Così, ciò che stava a cuore al Cassinate lo ritroviamo, ad esempio, in nuce già in uno scritto di Arthur Schopenhauer del 1851. In quell'anno il filosofo tedesco aveva pubblicato, non senza difficoltà, nei due volumi dell'opera Parerga e Paralipomena lo studio intitolato "La filosofia anticonformista", polemico, nemico giurato della "genia universitaria" che in Germania a quel tempo si identificava totalmente nel pensiero dei "tre sofisti" Fichte, Schelling ed Hegel. Il trattato di Schopenhauer si apriva con una celebre citazione della Repubblica di Platone, ad indicare la volontà di riallacciarsi all'insegnamento socratico e platonico, contro ogni forma di incasellamento e di dogmatismo cattedratico, nel nome della filosofia intesa come "libera indagine della verità". Schopenhauer lanciò tutta una serie di sferzanti e violentissime accuse contro i "filosofi avversari", rei di svolgere la loro professione con tranquillità e buon umore, quando invece il vero filosofo vive la propria condizione in un perenne stato di malessere, di agitazione e di insoddisfazione.

Nel combattere la "pseudosapienza" dei mercenari e dei "minchioni" (il Filosofo tedesco scrive proprio così), ossia dei cattedratici e dei filosofi di professione fedeli ad Hegel, Schopenhauer implicitamente attaccava tutto il sistema dell'istruzione e della cultura che proprio nella metà dell'Ottocento andava istituzionalizzandosi in maniera rigida e burocratica.

Da quel geniale pensatore che era, Schopenhauer aveva intuito, con straordinaria capacità profetica, che il neocattolicesimo tedesco non era altro che un hegelismo popolarizzato; quella medesima "apoteosi hegeliana dello Stato" che avrebbe poi portato, sul versante opposto, alla concezione tragicamente drastica dello statalismo, ossia socialismo reale. Dirigismo clericale da un lato, statalismo dall'altro: le due facce d'un'identica impostazione anti-libertaria dalle conseguenze anche, e soprattutto, in campo culturale.

Nel 1896, ossia quasi mezzo secolo dopo la pubblicazione del trattato di Schopenhauer , l'Università di Roma invitava il filosofo cassinate Antonio Labriola a tenere il discorso inaugurale dell'anno accademico. In una lettera a Benedetto Croce del 23 aprile di quell'anno, Labriola confessava che, per dissipare il timore che egli potesse tenere un discorso politico, aveva scelto come tema l'argomento della sua vecchia tesi: "Della laurea in Filosofia". Intendeva parlare, insomma, della "Filosofia nell'Università moderna": lo stesso tema del saggio di Schopenhauer (senza alcuna intenzione, naturalmente): ma si sa che la cultura italiana è sempre stata almeno cinquant'anni indietro rispetto a quella nord-europea.

Come scrive il curatore Nicola D'Antuono nel suo studio introduttivo, "le circostanze oggettive costrinsero il Filosofo di Cassino a modificare l'intenzione originaria, ma solo in un certo senso". Che cosa era successo?

Essendo la stampa occupata con le vicende della guerra d'Africa, non s'era affatto interessata della prolusione di Maffeo Pantaleoni tenuta all'Università di Napoli, in cui l'economista – peraltro inviso a Labriola per le sue idee antisocialiste – aveva parlato dei privilegi dei professori. Ma aggiungeva ironicamente Labriola in una nota a riguardo indirizzata a Croce: "Basta che in fatto di privilegi tu guardi il caso di Pantaleoni, che continua a far lezione, dopo aver ingiuriato il re!" Evidentemente, "graziato" per il suo anti-socialismo. Labriola era indignato profondamente che "la vecchia organizzazione del lazzaronismo universitario" – confessò senza peli sulla lingua – pigliasse "il nome e le apparenze del socialismo". In conseguenza di ciò, comunicò al Croce l'intenzione di modificare l'argomento che avrebbe trattato. Già nei giorni immediatamente successivi, al posto della solita lezione, avrebbe tenuto una conferenza straordinaria dal titolo: "Le ragioni e i limiti per tutti i ciarlatani di tutte le specie".

Non è da escludere che anche nell'intenzione originaria (qualora cioè nella prolusione avesse parlato della Filosofia nell'Università), Labriola avrebbe comunque toccato la stessa materia incandescente. Ciò perché per Labriola l'università doveva essere – nota D'Antuono – territorio di lavoro critico, e nessun'altra facoltà al pari della filosofia "in quanto critica dei principi del conoscere, aveva l'ufficio di eliminare i pregiudizi e di sottoporre a giudizio critico verbalismo, fraseologia e scolasticismo".

Labriola aveva sempre guardato con disprezzo – non dimentichiamo il suo fondamentale saggio sul valore dell'insegnamento antidogmatico socratico – le ben consolidate lobbies d'università, che definì "escamotteriae doctores rive imbrogliones". Lanciava siluri violentissimi contro quei letterati i quali non conoscono altra significazione della parola dialettica se non quella dell'artificio sofistico".

In una lettera a Bertrando Spaventa (a cui s'ispirò nel trarre il titolo della sua prolusione: vedi La libertà d'insegnamento di B. Spaventa) confessò che a Roma preferiva conversare con la sua padrona di casa, anziché coi docenti universitari. Ma se Labriola proclamava l'assoluta necessità della "libertà d'insegnamento" contro le interferenze della ottusa e dispotica burocrazia (giacché "lo stato, che definisce la scienza, é già una chiesa), nello stesso tempo egli asseriva che questa libertà doveva avere dei limiti, nel senso che "l'attività nostra non è rimessa al nostro personale arbitrio". Pertanto, contro il privilegio di singoli e di corporazioni, la libertà d'insegnamento doveva porsi "come un diritto della collettività contro l'errore endemico degli eruditi di vedere ovunque sistemi unitari e processi organici", insomma contro la pretesa degli scolastici di ridurre tutto a sistema.

Labriola si scagliò contro il mito psicologico della genialità che serviva a nascondere tanta ciarlataneria. Questo perché "pensare è produrre" e "imparare è produrre riproducendo". E ancora: "la scienza è lavoro e il lavoro non è improvvisazione".

La critica del concetto di genialità ribadisce quanto lontano, anzi antitetico, fosse il pensiero di Antonio Labriola rispetto a quello di F. Nietzsche, da Labriola definito "insieme con Von Hartmann "autori di filosofie di privato uso ed invenzione". Il nostro riferimento a Nietzsche non è casuale: nel 1874 il Filosofo tedesco si era espresso in termini estremamente negativi a proposito dei rapporti fra filosofia e poteri dello Stato. In "Schopenhauer come educatore" (in "Considerazioni inattuali", III) Nietzsche aveva scritto: "Ogni Stato favorirà sempre quei filosofi da cui non teme nulla. Lo Stato ha comunque paura della filosofia, (...) non si è mai preoccupato della verità, ma solo di quella verità che gli è utile". Per avvalorare la sua tesi, Nietzsche citava l'esempio di Platone, quel Platone dal quale era lontano mille miglia sul piano etico-filosofico.

Se abbiamo citato Nietzsche è per dimostrare, ancora con maggior chiarezza, quanto il problema dell'insegnamento (non solo filosofico) fosse diffuso e avvertito, anche se poi ogni studioso lo esaminava dal proprio punto di vista. Perfino Giacomo Leopardi, nello "Zibaldone", aveva deplorato il concetto di cultura come istituzione, condannando la "barbarie dello stile degli odierni accademici".

Né dobbiamo dimenticare che Labriola, come testimonia Benedetto Croce, era giunto al socialismo "attraverso la critica dell'idea dello Stato". E sappiamo con quanto risentimento il Filosofo Cassinate avesse, in più occasioni, condannato il gretto dirigismo di Stato, particolarmente nei suoi aspetti culturali. Nella prolusione del 1896 Labriola deplorava il fatto che "stratificando l'insegnamento, lo Stato si è messo in seno a quella scienza che è per se stessa la libera ricerca". Inoltre ricordando la necessità di istituire degli esami che, dopo il conseguimento del titolo, abilitassero in un certo senso all'esercizio della professione, notava: "senza litigare sulla parola inesatta, li chiamerò anch'io esami di Stato, ma bisogna dire invece: esami professionali".

Nel leggere la presentazione di D'Antuono alla nuova edizione della prolusione di Labriola, ebbi subito il sentore che il significato reale e complessivo dell'eredità di Labriola fosse stato messo da parte, ossia fosse stato volutamente trattato in maniera velata e impercettibile. Mi riferisco alla definizione data dal grande Luigi Del Pane (ma non solo da lui) di Antonio Labriola come "teorico del marxismo italiano". A mio modesto avviso, non è possibile estrapolare il discorso "L'Università e la libertà della scienza" da quello che, con assoluta coerenza, fu il messaggio di tutta la vita del Cassinate. Invece D'Antuono fa i salti mortali per mostrarci di Labriola un'immagine deformata, non corrispondente alla sua vera identità. Ad esempio, sottolinea come Labriola avesse deriso "i cosiddetti professori socialisti e le Università del socialismo". Ma a quali socialisti si riferiva?

In una lettera a Croce del 6 giungo 1896, Labriola denunciava come la libertà d'insegnamento non interessa punto i proletari e i socialisti (...) anche se le Università saranno date ai Domenicani". Fermo restando che Labriola credeva nel ruolo "scientifico e non ideologico" della scuola, lontana da apostoli e da agitatori di cattedra, occorre però precisare che limitarsi a presentare solo una faccia della medaglia,– come fa D'Antuono – significa falsare la realtà dei fatti.

Il sentore si trasforma in certezza quando, nel leggere sempre lo studio introduttivo di D'Antuono, ci imbattiamo in taluni collegamenti tra la prolusione di Labriola e il saggio di Max Weber "La scienza come professione". Certo, i riferimenti ci sono, anche in maniera evidente; però si tratta dei medesimi contatti che, a questo punto, potrebbero essere stabiliti con opere di Habermas, Fromm, Chomsky, Russel, ma anche del nostro Bobbio, senza ignorare il bistrattato Schopenhauer da noi citato all'inizio.

E' noto che Max Weber fu un oppositore del materialismo storico, benché da posizioni progressiste. Non solo: sul piano metodologico sostenne 1'avalutatività delle scienze storico-sociali, che vanno limitate a semplici giudizi di fatto e all'uso di tipi ideali privi di giudizi di valore. Sappiamo, al contrario, quanto fosse importante per Labriola l'insegnamento etico della storia e dei processi storico-sociali. Scrive al riguardo Luigi Dal Pane: "Labriola ha mostrato la possibilità di scindere il materialismo storico dalle sorti pratiche del socialismo e quindi ha identificato lo sviluppo del materialismo storico con lo sviluppo stesso della scienza storica".

Per fortuna Labriola e Weber non sono stati gli unici oppositori degli addottrinamenti politici ex-cathedra, altrimenti, povere università! Ma questo resta l'unico vero punto di contatto fra i due. E innegabile, del resto, che la formazione ideologico-culturale d'un autore incide di fatto, se non altro sul piano didattico-metodologico, sulla sua attività di insegnante, checché ne dicano i solomi dell'asetticità della funzione educativa. Chiare prove di questo connubio, palese o strisciante che dir si voglia, tra forma mentis e impostazione didattica, ce le fornisce proprio Labriola nella sua prolusione, mostrando nettamente la propria matrice marxista. Leggiamo: "Per quanto lo stato sia l'organo diretto di determinati interessi di classe, non può esistere se non a condizione di creare certi servizi, che per diretto o indiretto riescano a vantaggio di tutti".

Il nodo irrisolto dell'intera questione, che D'Antuono non aiuta a chiarire, è, in definitiva, quello di stabilire una volta per sempre se, e fino a che punto, il Filosofo Cassinate ambisse a tenere distinte e separate la propria fede socialista dall'attività di docente. Il dubbio è legittimo, se analizziamo attentamente il contenuto della lettera a Spaventa del febbraio 1876: "Avrete letto nei giornali che io sto per diventare socialista. Faccio lezione agli operai di diritti e doveri. Spero di riuscire meglio che all'Università, perché il senso stretto della moltitudine è ormai preferibile a tutto questo nostro mondo fittizio di scienza burocratica".

Dalla lettera si evince in maniera inequivocabile come le aspirazioni di Labriola in fatto di insegnamento fossero ben diverse da ciò che l'Università gli offriva. Ogni residua perplessità, infine, viene spazzata via da talun passaggi cruciali della prolusione del 1896, ove si legge: "In pochi casi il pigliar partito per un indirizzo politico è cosa intrinseca all'insegnamento stesso, ed entra nel vivo dell'orientazione scientifica. (...) Ora l'economista che abbia, per esempio, fatte sue le dottrine di Marx, non può aver libertà minore di quella che tocchi a chi le medesime dottrine faccia oggetto di critica". Labriola concludeva asserendo che anche qualora "vi fosse un professore socialista il quale, scambiando gli studenti con gli operai delle fabbriche, si mettesse nella Università a rappresentare il primo atto di una rivoluzione sociale in melodramma", costui, sarebbe degno di essere affidato alle oneste cure di un manicomio. Pertanto, l'affannosa denuncia di quanti ritenevano "essere l'Università causa d'anarchismo" per Labriola non meritava "fuori di questa satira, nessun'altra risposta", nella convinzione che non può esserci confine netto e invalicabile tra orientamento politico ed esercizio della professione didattica.

Labriola sapeva di muoversi su un terreno minato: con estrema accortezza s'era proposto di denunciare determinate aberrazioni insite nel mondo accademico, pur difendendo la dignità intellettuale del docente da ogni forma di condizionamento esterno. Nell'edizione enaudiana degli Scritti filosofici e politici di Labriola (Torino, 1973) – ove è compresa anche la Prolusione – Franco Sbarberi ricorda come Labriola già nel gennaio del 1887 tenne all'Università di Roma una serie di lezioni sul socialismo. Labriola dedicò le sue energie migliori alla ricerca universitaria – sottolinea Sbarberi – a causa della "sfiducia sempre più radicale verso i partiti esistenti". Per il Filosofo Cassinate il ruolo della cultura nell'educazione dei cittadini – particolarmente da un punto di vista etico – era fondamentale e insostituibile. Scriveva ad Engels dopo il Congresso di Genova del 1892: "L'azione pratica in Italia non è possibile. Bisogna scrivere libri per istruire quelli che vogliono farla da maestri. Manca all'Italia un secolo di scienza e di esperienza degli altri Paesi. Bisogna colmare questa lacuna".

Cinquant'anni dopo il j'accuse! di Schopenhauer, Labriola era pienamente consapevole stigmatizzandoli, dei rischi derivanti da un clericalismo bigotto e deteriore da un lato, e da un socialismo forsennato e fanatico dall'altro, pericoli incombenti sull'intera collettività, e non solo sul mondo universitario. Pure, Labriola cercava di smorzare i toni, benché a suo avviso quei rischi venissero sminuiti nel caso del clericalismo, e ingigantiti nel caso del socialismo.

Volendo gettare acqua su fuoco, difendeva la libertà dei docenti da ogni forma di eventuale intromissione, sicché sdrammatizzava entrambi quei pericoli: però, a leggere bene il testo della prolusione, mentre a proposito di clericalismo aggiungeva che "ormai va pigliando da noi consistenza e forma di partito politico", riguardo al socialismo dichiarava che trattasi di "apprensione alquanto prematura", cioè ingiustificata.

Fidando nelle nuove frontiere del sapere, in virtù delle quali più nessuno osa spiegare "la vita coi concetti di fato, di caso, di arbitrio e di provvidenza", Labriola era convinto che "l'Università è essa stessa un riflesso ed un risultato della vita sociale", il che significa che è sciocco e ridicolo tentare di imbavagliare la cultura. Alla luce di tutto ciò, mi pare che D'Antuono, nella sua dotta prefazione, non riesca a giungere al nocciolo dei problemi, così come si è cercato si sottolineare sopra. Egli menziona sì gli scritti marxisti del Filosofo, come pure il suo epistolario con Engels, ma lo fa quasi per dovere d'ufficio, come se fossero citazioni d'obbligo, senza attribuire a quei testi la loro effettiva importanza anche sul piano dell'impegno educativo del Filosofo. D'Antuono si sofferma sugli interessi letterari di Labriola (Shakespeare, Schiller, Voltaire, Tacito, Bruno, Plauto, Galilei) con una apertura lodevole, che denota la volontà di superare i soliti schematismi. E risaputo, che sovente Labriola è stato presentato come un marxista rigido e con i paraocchi. Tuttavia un tipo di operazione del genere può diventare rischioso nel momento in cui l'autentica molla che sta alla base di tutto l'insegnaento di Labriola, ossia la sua passione politica, viene quasi oscurata.

Il fatto, poi, che "certi risultati metodologici siano stati acquisiti da Labriola dopo il distacco dall'hengelismo e prima dell'esperienza marxista" – come ricorda Franco Sbarberi – non indebolisce affatto, anzi rafforza la portata delle conquiste, proprio perché effettuate lontano da eventuali condizionamenti ideologici.

Questa nuova edizione della Prolusione è stata presentata a Cassino nel novembre 1998, alla presenza del Prof. D'Antuono, sotto gli auspici dell'Istituto per le ricerche sociali "Antonio Labriola", diretto dal sottoscritto. Ebbene, devo confessare che, ascoltando le dichiarazioni del curatore e degli altri relatori, tutte le perplessità che avevo purtroppo accumulato sono state confermate in pieno. Sostanzialmente, Labriola viene presentato come un "socialista anomalo e sui generis", un pesce fuor d'acqua, insomma. L'eccezione che conferma la regola, visto che, come scrisse sempre Labriola ad Adler, "il socialismo in Italia è una semplice mistificazione". In tal caso, perché non aggiungere, allora, che Labriola era un illuso e un sognatore?

Ma chi ha studiato bene il pensiero del Filosofo nato a Cassino sa che egli era fatto di tutt'altra pasta. Labriola fu un vero socialista, un socialista scomodo per l'esempio e le verità che insegnava. Le sue verità erano talmente dure da digerire che presto il suo insegnamento fu dapprima accantonato e poi rinnegato. Le sue idee in materia culturale vennero rigettate per abbracciare il dirigentismo partitico, il livellamento culturale, la burocrazia di Stato, i dogmi intoccabili di parte. Le conseguenze le conosciamo: dappertutto i migliori cervelli fuggirono dalle gabbie imposte dalla partitocrazia di sinistra anche in tempi recentissimi. Pensiamo a Silone, Vittorini, Pavese, Pasolini, Sciascia...

Nel corso della presentazione D'Antuono ha altresì sostenuto che Labriola fu, ed è, un "vinto" e la sua lezione sarebbe ormai "inattuale". Mi limito a ribattere citando quanto scrisse Antonio Gramsci, nei Quaderni dal carcere, a proposito di Labriola: "Labriola è il solo che abbia cercato di costruire scientificamente la filosofia della "prassi" e come tale (aggiunge Sbarberi) l'unico pensatore che in Italia dovrà essere rimesso in circolazione con l'avvento di una società socialista, quando si porrà "l'esigenza di costruire un nuovo ordine intellettuale e morale e di elaborare i concetti più universali, le armi ideologiche più raffinate e decisive" (Gramsci).

Aggiunge Ludovico Geymonat: "Labriola ci ha lasciato solo trenta pagine dell'opera appena iniziata: Da un secolo all'altro. Considerazioni retrospettive e presagi, in cui intendeva fermarsi «sopra alcune caratteristiche del secolo decimonono per venire a dichiarare la configurazione del mondo civile in questo prossimo passaggio da un secolo all'altro». Si tratta indubbiamente di appunti – spiega Geymonat – ma ci sembra di non esagerare dicendo che anche in questo caso ci troviamo di fronte a un frammento di ancor viva attualità".

Tra il 1897 e il 1899 il Filosofo polemizzò contro la "revisione del marxismo", ossia contro l'ipotesi di "crisi del marxismo", pur sapendo che "quella istituzione della vita e del mondo, la quale si compendia nel nome di materialismo storico, non è giunta a perfezione negli scritti di Marx ed Engels". Per questo si prodigò per un ulteriore approfondimento delle teorie di marx; per questo propose ad Engels una modifica, in Italia, della formula metodo dialettico, da sostituire con l'espressione metodo genetico. Ma in ciò non vi fu alcun "scantonamento", alcuna "licenza" da quelli che erano i pilastri del marxismo. Labriola era più che mai convinto che il marxismo è una filosofia autonoma, da salvaguardare e proteggere da volgari integrazioni di altre discipline e dottrine, specie sul versante storico-sociale.

In ogni caso, e per concludere, volendo prescindere da tutto ciò, ritengo che il limite maggiore dell'analisi compiuta da D'Antuono consista nella forzata arbitraria frattura tra l'impegno etico-filosofico e politico del Cassinate e la sua instancabile missione di docente.

Colpito da una grave forma di tumore alla gola, che gli tolse di fatto la facoltà di parola, circa un anno prima della morte (avvenuta il 2 febbraio 1904), confidava con amarezza a Kautsky, in un misto di ironia e verità: "Così, anche il marxismo, all'università di Roma, è acqua passata!"

Noi, che pure abbiamo dato vita nella Città Martire ad un istituto di ricerca intitolato al Grande Pensatore Cassinate, ci guardiamo bene dal cadere in forme di campanilismo che porterebbero a una inesatta valutazione dei fatti. Ci permettiamo, pertanto, di dissentire da chi punta tutto sulla presunta novità della Prolusione a proposito della "libertà dell'insegnamento". La portata autenticamente dirompente di quel discorso di Labriola – che riassumeva un'intera lezione di vita – rispetto alle migliaia di libri scritti in precedenza sulle problematiche della moderna paideia, è la seguente: Labriola era un marxista che predicava la libertà.

E non è assolutamente poco.

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