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Dell'invalicabile ciclicità del divenire materico Danilo Mandolini si sforza, invece, di individuare – e, se possibile, focalizzare – solo esili Radici e rami. Egli percepisce come avulso, estraneo a sé il mondo circostante, che contempla con svagata noncuranza dalla finestra di una clinica, ricavandone sensazioni ed impressioni simboliche come "l'accento metallico del freddo; come un sorriso che il viso accenna e che poi cancella". C'è uno "spirito inumano" che rende "fragili e selvagge" le vene e il sangue degli uomini, come un sogno costruito sulla sabbia. In tale stato di provvisorietà – così è "il mondo intero" –, riuscire a scoprire qualche piccola sembianza non transitoria è impresa meritoria: "Poco di certezze conoscevo, poco | di città e distanze ricordavo." La ricerca delle radici avviene sul filo di rimandi intimissimi e struggenti, ben soppesati, ed è legata alle immagini ed ai ricordi, ai sorrisi e agli oggetti delle persone care – le lettere del padre alla madre – mentre personaggi sfuggenti si agitano e si confondono tra le ombre "che si fermano nel vuoto". Le radici sono gli inestirpabili affetti, mentre i rami costituiscono la crescita, il protendersi delle origini nel tempo; ciò che angustia, dunque, è la fragilità del tronco, ossia del legame che ha il compito di assicurare solidità e nutrimento ai rami. Per questo il Poeta si mostra instabile e "smarrito" (termine ricorrente nel libro), del tutto indifferente agli eventi esterni: "Vorrei ospitarti nel mio altrove". Occorre aggrapparsi a episodi curiosi come "le stoppie | dure del mais appena tagliato", su cui l'autore, da bambino, giovava al calcio: già allora pensava "a quando quel campo | sarebbe bruciato senza soffrire". L'unica certezza è sapere che "moriremo, un giorno". Epperò, Mandolini non si affanna: "Lascerò che il tempo sciolga spazio, | che gli anni ammassino utopie, | che i rumori conservino tutto | quel che ci narra dell'altrui sperare."

Recensione
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