| |
Nelle “parole già
dette | che sopravvivono ancora, | fredde” di questa nuova raccolta – che si
presenta come un vero e proprio poemetto – ritroviamo echi e spunti che ci
riconducono all’opera immediatamente precedente di Mandolini: l’anima del
ghiaccio (1997).
Ciò che pare
tentare/abbacinare l’attenzione dell’autore sono le incombenti e incalzanti
ombre “di forme nude prossime al niente” che sorprendono “il vigile
riposo della luce”, sono le “attese del gelo” tra “folle di saluti
notturni”. Ma il poeta non si sente ossessionato – o, peggio, minacciato –
da siffatte parvenze, nel senso che non ne teme l’inarrestabile incedere, che
pure ama contemplare, scrutare e studiare seguendone “l’animato itinerario”.
Nello scritto posto
a chiusura del volume, Giovanni Commare osserva che, in effetti, ci troviamo di
fronte a “quella visione della vita, eroica senza illusioni, che deriva dal
materialismo leopardiano. Mandolini ha il coraggio di contemplare le fauci del
nulla e di ostinarsi a cercare la via della conoscenza”.
Il respiro e l’ansia
conoscitiva di Mandolini tendono a rispecchiare formalmente le regole della
tripartizione dialettica: nettamente diviso in tre momenti (Uno, Due e Tre),
il poemetto “è la storia di un viaggio che si avvia dallo strazio di una morte
(Commare).
Ma è un itinerario
che istintivamente – e saggiamente – affida piuttosto ai sensi (vedi il sensismo
leopardiano), che non all’intelletto, il compito di “resistere da miserabile,
per l’azzardo del mondo” (come recita la citazione da Leonardo Mancino) alle
ingiurie dell’esistenza. Perché il poeta “in quell’amore ha perso il senno”,
nonché “il posto nella lunga processione | degli uomini che al disegno della
fine | le spalle volgono”.
E’, in sostanza, il
messaggio contenuto ne La ginestra: “E gli uomini preferirono le tenebre
alla luce”. In quelle tenebre, in quelle ombre Danilo Mandolini si muove con
lucida coscienza epperò quasi a tentoni, esplorando ed investigando da cieco,
giacché sa d’essere circondato da “minimi oggetti nascosti alla vista”.
Egli lascia che sia l’istinto a guidare la piatta e menzognera ragione: non a
caso, le diverse citazioni da Gatto, Brodsky e Seifert valgono a trasmetterci
l’idea di un costante “spasmo dei gesti” convulso e scomposto, di un
magmatico divenire tutto assoggettato ad un “obliquo peregrinare e morire…”.
Nella dolcezza inquieta – assorta e insieme violenta – di questo pessimismo
metafisico e quasi spettrale, non escluderei qualche punto di contatto con la
“la visione un poco apocalittica” di Giorgio Caproni, con il suo non essere e
“non-essere-stati” che si traduce in una “verbalità metaforica prima che
mentale”, come si espresse Vittorio Sereni.
| |
 |
Recensione |
|