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Lucio Zinna è spirito poliedrico, che si
esplica in molteplici attività: proviene dagli studi di filosofia (su Jacques
Maritain) e si dedica a ricerche storiche (su Ippolito Nievo) con la passione
dello specialista, ma non tralascia la sua attività intensa di pubblicista,
interessato ed attivo in riviste culturali e periodici vari. Eppure forse la
produzione che egli sente più sua, autentica rivelatrice del suo essere, è la
creazione poetica. Ormai notevoli sono le sillogi che dal 1964 si vanno
allineando sul suo tavolo, dal «Filobus dei giorni» ad «Un rapido celiare», da
«Sagana» a «Tabes».
Ora per i tipi di Forum/Quinta
Generazione ha pubblicato una nuova raccolta, Abbandonare Troia. Questa prende
il titolo dall’ultima sezione, dalla poesia omonima. Un viaggio in treno da
Pescara a Napoli gli fornisce la visione di un paesaggio primitivo, semplice,
sano, un eden perduto, dove quasi «un
senso angoscioso di quiete filtra» e per questo gli viene istintivo «piantare
tutto» e sistemarsi con la famiglia nel più lontano villaggio. Da qui il
concetto ed il bisogno di «abbandonare Troia», abbandonare la lotta inutile, le
attività, tagliare i fili col resto del mondo, tornare ad una purezza
primordiale. Ma il treno corre e lascia questo paesaggio e questa dimensione del
vivere, riconducendo il poeta alla triste realtà della sua terra della sua vita
a Palermo, «verso un freddo glaciale». Una parentesi, il ricordo della madre,
consapevole di lasciare il figlio in questo marasma di fredda materialità,
accentua sempre più il
bisogno del distacco e dell’evasione.
Ho preso le mosse da questa poesia ed
insisto su questi aspetti, perché mi sembrano i più caratterizzanti della
produzione di Zinna. Solo se si tien conto di questo bisogno di evasione dalla
quotidianità mortificante e svilita si può comprendere quale nostalgico alone di
grazia circonda la memoria della giovinezza rievocata in grati ricordi della
«semenza» in “Odore di acetilene” o «Discende Mariastella i gradini del
liceo gaudiosa» in “Fruit of the loom”, o meglio ancora «compagna di
scuola selenica e soda» in “II bacio”, tutte accentrate con preferenza nella
prima sezione, “Clorofilla”.
Nella seconda raccolta, “Scartabello
degli attimi invenduti”, si accentua II rifiuto dell’attualità meccanica,
inespressiva, fredda, disumana. Nella poesia che porta lo stesso titolo il poeta
conclude che dopo mezza vita spesa a conquistare la città «in una lotta a
quartiere», «ci spenderemo il resto a conquistarne l’abbandono e barattare
sterco di cemento per sterco di cavallo... | ... i sindacati per una gallina».
Ancora un ricordo, un’oasi, in “Pastori di Sagana”.
Ma la terza sezione, “Lamentazioni
d’Orfeo”, ci riporta alla visione caotica, disumana del mondo di oggi, da cui
occorre difendersi, «vigile memoria di sconfitta barbarie» in «Resistenza», o
«...trincea | d’accaniti conflitti... | tra sorriso bestemmie nausee dispregi
malumore» in “Tabes”.
Lo sguardo accorato rifugge dalla
quotidianità avvilente, per rifugiarsi ancora una volta nel vago sogno del
figlioletto, che vorrebbe far da guida a papà, quando questi ridiventerebbe
bambino per comprargli il gelato di fragola, il grembiulino, il cestino e
accompagnarlo all’asilo, nella poesia “A Massimiliano”, circonfusa di grazia
misurata. La conclusione della poesia, inclusa nelle “Epistole metriche”, è
emblematica espressione dell’asciutta nudità ed essenzialità, con cui Lucio
Zinna ingoia la sua lacrima e spera ancora in un mondo salvato dai ragazzini:
«fosse l’infanzia | a reggere per una volta le stanche sorti del mondo».
Un contrasto siffatto non poteva che
essere espresso nel tono dimesso, colloquiale, che solo una lucida
consapevolezza del reale può dettare ora attraverso frequenti sfoghi intrisi di
sottile ironia oppure più comunemente attraverso una rassegnata disperazione.
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Recensione |
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