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La lettura di ogni nuovo libro di Giovanni Chiellino propone, allo stesso tempo, evoluzione e coerenza. Così avviene per Il giardiniere impazzito, ennesimo tassello del work in progress dell'autore e indiscussa prova di fedeltà a quello che può definirsi il suo progetto poetico.

Perché – ci si potrebbe chiedere – un giardiniere, e per di più impazzito, nella poesia del nostro medico-poeta, rivolta nelle sue varie sfaccettature, al viaggio, alla memoria, alla terra al mito mediterraneo? Eppure l'anello di congiunzione c'è, e si rivela subito con l'esplosione, tra il reale e il visionario, di un panorama composito di tutti gli elementi da sempre propri di quell'estro. C'è nello sfondo – come motivo precipum – il tema del viaggio, ma non tanto come un itinerario esistenziale, che può sfiorare qua e là punti diversi del mondo, dalla Spagna della guerra civile alla Germania concentrazionaria, da Sarajevo a Hiroshima o al Medio Oriente, ma si dipana essenzialmente nei luoghi dell'anima, fra terra e cielo, in interrogativi e condanne.

Né manca il motivo del mito, nella cornice dell'immaginario, che si concentra sul giardino, emblema mitico dell'Eden e metafora di delizia che sempre ha affascinato i poeti: qui drammaticamente rovesciato in luogo di sangue e di morte dallo stesso giardiniere cui ne compete la cura e invece, preso da un folle raptus, ne rovescia le ortensie e le rose, l'oleandro e il melograno, per innestare mine antiuomo, missili e mitraglie e produrre filari di croci. La terra, cantata da Chiellino in tutte le sue bellezze e incanti si copre di germogli occhialuti e assestati di sangue. Così la memoria è oggi, nel vuoto della follia collettiva, una "rondine ferita" e giace muta tra le salme. La natura è sovvertita e partecipe di dolore. C'è in questo ininterrotto poema, l'indagine sul destino di morte che attanaglia i giorni dell'umanità, non la morte naturale, ma la morte inferta dalla guerra e dalla violenza, quella che colpisce specialmente i giovani, ferisce gli occhi dei fanciulli, fa piangere le madri. Alle giovani vittime della violenza non è consentito, come a Gesù di Nazareth la "gloria del terzo giorno" col prodigio della resurrezione. Il Bene e il Male, simboleggiati dall'Angelo Celeste e dall'Angelo Nero, non hanno ruoli separati: s'intrecciano e si compenetrano in ambiguità di occasioni. L, quello di Chiellino, l'inflessibile processo allo sbaglio (dimenticanza o distrazione?) di un Dio che permette tanto spargimento di sangue nel contesto di una natura ricca di promesse e di bellezze.

Una ardita e umile, spietata e dolente disamina dell'esistenza fra vita e morte, al limite di una inesorabile "soglia, pronta ad inghiottire i corpi uccisi, tanto più dura da varcare, quanto più si tratti di giovani vittime, immolate nel pieno delle attese: "Fanciulli appesi ai rami fragili dei sogni". L'opera è costruita in sessanta composizioni di varia lunghezza e metrica con straordinaria leggerezza e flessibilità del linguaggio o delle immagini, nonché la sapienza culturale di citazioni, che consentono infinite variazioni anche in analoghe situazioni, come l'uso esperto dei metri, dell'assonanza e la ricchezza delle metafore. Su tutto, la valenza di metapoesia, che traspare sovente, dapprima con il riferimento all'impotenza della parola, infine con l'apoteosi dell'efficienza e dell'autorevolezza della Poesia, la sola che può e deve tramandare non solo i sentimenti e le passioni, ma anche ciò che avviene alla società civile. E' quanto Chiellino afferma con sicura fede nell'acrostico dell'epilogo e in particolare nel Congedo.

Recensione
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