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“...Quando a me vengono | per un albero grande mi compenetro rischio poi li vedo | tornarsene lievi nemmeno portassero via un bonsai.” “Non tutti che mi stanno accanto mi sono prossimi. | Prossimità è corrispondenza interiore sintonia”. Prendiamo dalla prima lirica, tale perché in essa “il poeta esprime tutti i suoi sentimenti” (così il dizionario). E ancora: “Tutela se puoi in questa rotta | la nostra relativa solitudine” (i corsivi sono nostri). Bonsai1 è una suggestiva e pungente metafora che fa d’uopo spiegare affinché non si resti – come accade in altri casi – davanti a un fumoso enigma: è un albero sul quale i giapponesi intervengono con un procedimento di parziale castrazione (sulle radici) per ridurre una pianta di alto fusto (una quercia, un pino) a vivere su di un terrazzo, costretta in un vaso. Possiamo ora meglio capire ciò che allontana il poeta e il suo albero da coloro che quell’albero non riconoscono e che feriscono: Il Prossimo Tuo – “II mio dice il poeta spesso mi sgraffia si fa disamare | mi affonda i dentini – nosferatu – io mi ferisco | ricambio rammento mi scordo riprovo giro al largo”. È chiara qui la situazione del nostro scrittore; essa ha romantiche ascendenze: in un sonetto di Gérard de Nerval – El Desdichado – il poeta è considerato un reietto; verrà poi Baudelaire con il ben noto Albatros a raffigurarselo amaramente in esilio, misconosciuto, ferito, beffeggiato come l’uccello marino: «Le Poète est semblable au prince des nuées| ... . Exilé sur le sol au milieu des huées». Più tardi, con orgoglio, dirà che «le génie est seul». Gli incontri, come in Bonsai, sono ricorrenti quando nella poesia convergono motivi universali; questi, insiti nel nostro esame, sono immanenti nella letteratura, ma si scontrano con la poca attenzione di coloro che li riducono a bonsai. Ed ora, secondo abitudine, o metodo, una delle nostre alternanze: nell’aspra accusa che Carlo Bo ha rivolto alla letteratura contemporanea (“La Stampa”, 10-6-1989; “II Giornale”, 11-6-1989) in occasione della fiera della vanità e dell’imbroglio – che il premio “Campiello” rappresenta insieme con tutti gli altri – viene salvata la poesia perché essa «scava di più la parola». Quel verbo è spia di una stagione poetica ormai lontana, quella in cui prevalse il narcisismo della parola; esso proveniva dallo studio «du son et de la couleurs des mots» e da «abolis bibelots» (Mallarmé). Altri hanno continuato a scavare per trovare una poesia nuova; le poetiche sono fiorite e sfiorite come la “rosa” di Ronsard («Mignonne, allons voir si la rose...») con accese “querelles” che hanno posto le une contro le altre col solo intento di supremazia, di predominio. Ancora oggi gli epigoni del “Gruppo ‘63” si ripropongono, propongono nuove prospettive poetiche con un “Manifesto” pubblicato dalla loro rivista, “Alfabeta” (maggio 1987) per una Milano-poesia; ritornano, in quello, motivi che furono del “Manifesto” dei surrealisti: l’assunzione del “Suono” ed altri espedienti sonori. Gioco vecchio, oramai, di venti e più anni, che riduce la sintesi della quotidianità e dell’infinito spazio interiore a modesto concentrato di suoni e di borborigmi, mentre la smania dell’inedito assoluto spinge, non si sa per quale forza ignota, o troppo nota forza, gli intelligenti pionieri del 1963 verso orizzonti più lontani: l’oralità della poesia greca. Se le dottrine non sono mai nuove, l’arte non è mai vecchia, ma quella non può configurarsi nei versi fatti a pezzi o con cascami di giornali, di manifesti, nella continua rottura del filo del discorso, nelle sedicenti invenzioni tipografiche che, insieme con altre deliranti trasgressioni, non sono una novità. Basti ricordare ciò che accade in Francia in piena “mêlée” simbolista, in quella dei dadaisti, futuristi e così via sulla via del riciclaggio. Lucio Zinna non si è lasciato coinvolgere, condizionare da vani teorizzamenti, non ha avuto nessuna romantica voglia di evadere dall’inferno moderno, nel quale trova con visibili risultati un pantagruelico cocktail della nostra ricca e incoerente vita. Da quello trae qualche cosa che non ricorda modelli recenti, che non incomincia e finisce con lui. La forma ubbidisce a esigenze espressive e quello che è stato definito «consapevole e misurato ‘assemblage’» si srotola in versi-prosa, in una prosa segmentata, riflesso dell’animo acceso, come negli Irreversibili: “Sfuggono a classificazioni – mimetici | e inconsapevoli – estranei a mediche | discipline a psicoterapici trattamenti | ad ogni emendativa pedagogia. Possono – | a difficol-tose riprove – localizzarsi | quali tetraplegici dell’anima handicappati | dello spirito. Irreversibili”; in una prosa ritmata che diventa poesia: “Un lume che ravviva le pose svilite | che ri-fìorisce le rose appassite raduna | le disgregate pietre ristora le case | restaura le chiese indora il volto di madri | riapre le logge i teatri. Il lume che a oscuri | lati destina gli oscuri cantori del nulla | corrode all’interno i loschi figuri esalta | i canti di culla. Fatta di contrasti, dissidi, antinomie, ipostasi e rapide ascese, la poesia approda spesso al vivace dialogo, o monologo, come in Amoreumore: “...Ridi con me umoramore | vanne umoramaro. Con me pecca | t’inquina in me t’illimpidisci | semina i veli – umore mio tabù – | e canta (vedi – brucio d’umore). Il quasi scherzoso “débat” viene preceduto da tre versi che rivelano “refulate” (refouler) tentazioni: “Stilla il mio amore da minute gocce | trasuda sulle rocce nelle foglie | traluce all’alba settembrina”. Nel movimento di entrata ed uscita dal paesaggio dell’anima è possibile vedere fiori di ispida tenerezza, mentre nel naviglio del rimpianto, fra cortei e immagini, e di fatti cuciti di una apparente incoerenza, si scoprono contrasti di parole, di sentimenti con preziosismi di argiraspidi e dendrofori. Torniamo indietro per la dedica: alla moglie ai figli al gatto Raffaele a Teresa di Lisieux: «presenze di una sofferta ‘renaissance’» vengono proclamate. La parola francese sveglia analogie: al “sofferta” del poeta opponiamo un pensiero di Camus: «Je ne me plains puisque je me vois naître claque jour». Il poeta non rinasce ma nasce ogni volta che si realizza anche in un solo verso; infine «créer c’est vivre deux fois» (Camus). Per la sofferenza del poeta osserviamo che essa è immanente, è una categoria dello spirito. Il gatto Raffaele umanizzato: “Penso al mio gatto | alla sua serena corrispondenza | al reciproco modo di onorare | indipendenza (di azioni di giudizio) | e personale dignità”. Esso spinge a ricordare altri gatti che sono entrati nella letteratura: il gatto Lilith di Mallarmé (anche quello con un nome di persona) ; il gatto simbolo di una rivista degli infuocati anni del simbolismo francese: Le Chat Noir, La Chatte di Colette; il gatto filosofo di Jean Grenier nel libro Les Iles -, la sacralità del gatto nell’antico Egitto e altrove. Dato il suo giusto posto allo splendido animale, splendido per la sua personalità, l’insularità, capace di irridere l’uomo e le sue vanità, anche la figura di Teresa di Lisieux dà senso, verso la fine della raccolta, alla sua presenza. Ma conviene considerare i versi che precedono, quelli Per una chiesa di una metropoli del Sud. Con queste due liriche finali siamo in piena poesia religiosa: c’è un Maritain nella cultura (se non nel sentimento) di Zinna. Il suo colloquio col gatto, intanto, oltre a far pensare a San Francesco, rimanda a un altro poeta religioso francese, Francis Jammes. Egli dedica versi a una beccaccia che vuole vivere felice: “Je suis une bécasse | Je désire vivre heureuse | Je sais qu’il y a des choses ordinaires dont on s’étonne beaucoup”. Non ci si “etonni” per il gatto Raffaele! Francis Jammes ricorre anche per il dialogo diretto con Dio: “rappelez-vous, Mon Dieu, devant l’enfant qui meurt | que vous vivez toujours auprès de votre mère”. Il nostro poeta interroga lo stesso Dio: “Di me che sai? Ancora mi daresti uno sguardo | se mi sperdessi in questo navigare?”. Nel rapporto diretto con Dio non vi è una parte di quietismo? La chiesa: un rifugio, un riparo dalla realtà rumorosa e distratta e, stabilito, il silenzio, il poeta alla fine del suo dialogo con Dio rivela speranza, o scetticismo: “(Davvero questi sconnessi balbettii ti inducono | a fatti nostri a nostre diuturne miserie?)”. E poi l’umiltà: “Che parole ti attendi da questa – ormai sparuta – da sempre miserabile turba?”. L’umiltà si sublima in Mi curvo inconsapevole coronata, da una lontana, fiorita immagine che proviene dal tempo dell’innocenza: “Intanto mi fascia un lontano biancore di gelsomini”. A dare senso al ritorno dei gelsomini ecco il “Volto di Teresa di Lisieux | (in una foto di quasi un secolo fa)”. Anche in questa lirica la domanda sull’incertezza del vivere: “(a quali mondi aprirsi | in quali ambiti decirconscriversi)”. Se nella prima lirica c’è la speranza: “Tutela – se puoi – in questa rotta | la nostra relativa solitudine”, nella seconda prevale la serena certezza: “Per un volto così si può tornare | a ri–sentirsi fra uomini e salire”. La poesia religiosa non ha avuto da noi una grande letteratura; non ci sono stati i Péguy, i Claudel; bisogna risalire al Medioevo. Va considerato il fatto che tra coloro che si agitano oggi nell’asserito nulla e gli altri che si mirano per vedersi angeli o si ammirano innocenti vestiti di lino, la confusione è tale – in questa nostra Italia di eteronomie e di ambivalenze – che l’ascesi si nutre di ogni erba e materia, senza andare troppo per il sottile e senza sottrarsi occasionalmente alla relazione letteraria. Il codice della pura estetica ha superato da gran tempo il dissidio morale, così la morale dell’assoluto supera il pregiudizio di peccato o grazia trovando il divino nei messaggi di qualsiasi origine e natura. Fenomeno, del resto, che è sotto i nostri occhi per il proliferare continuo di nuove sette religiose. Nel diversificarsi di Bonsai, nell’avvento delle idee non poteva mancare qualche momento in cui il verso si veste di filosofici colori. La componente fìlosofica è presente nella cultura di Zinna, ma egli non cede al dottrinario come purtroppo è avvenuto in altri poeti. In passato certi inni al dio delle idee erano rimasti fuori; il Romanticismo restava ai margini della filosofìa, sembrava quasi con essa incompatibile. Poi furono le avventurose alleanze con Hegel e quindi gli scambi massicci con Schopenhauer, con Bergson, Nietzsche; non occorre citare quali e quanti poeti ne furono impregnati. Basti ricordare D’Annunzio. Oggi, per certe rivalutazioni dei “nouveaux philosophes”, troviamo un Edmond Jabès che tra “pensées” pascaliane e velleità meditative ha dato luogo all’espansione di un nuovo genere di letteratura che ci porta indietro di molti anni. Anche a non essere filosofi, non pochi scrittori, oggi, si sono abbandonati all’interrogazione. In un universo organizzato, quello razionale, la filosofìa passionale dell’eterna problematicità non poteva aver fortuna. La ha oggi in un mondo disorganizzato, con la rivolta dell’irrazionale, dell’inconscio, dell’istinto vitale e via discorrendo. In questa rete non si è impigliato Lucio Zinna, sensibilizzando le idee, rendendole suggestive con le immagini, con metafore: “Di che vai discorrendo sperduto fratello | nelle carte nelle nebbie nell’innecessario | morso che azzanna fegato e cervello di quale | ‘atteggiarsi’ che l’oggi non c’imponga a meri | fini di sopravvivenza di quali cattedre | che non siano di miseria (persino economica) | qui non ci sono – reali o ipotetiche – grandezze | peraltro impercorribili se non in noi – per noi – | nel nucleo agostiniano dove non può colpirci | nessuna bomba–damocle”. La scrittura: fra chi ammoniva: «écrire autrement que les journaux» (Mallarmé), e l’altro che affermava: «les mots que j’emploie ce sont les mots de tous les jours, et ce ne sont point les mêmes» (Claudel), il nostro poeta preferisce talvolta il secondo. Le parole sono comuni, ma da esse sa trarre intense evocazioni, mentre il verso suggendo alla aritmetica analitica chiede ausilio alla metafora, si basa sulla sintesi di cose differenti, sull’algebra superiore delle analogie con equazioni numerose contenute nei prefìssi e nei radicali: “urì sempre verdi peccatrici (dis) velate” – “L’in(d)izio – di come ogni gloria si sgretoli” – “sostando fingendo non fingendo di (s) conoscere il fine” – “in quali ambiti de–circoscriversi”. La raccolta cerca di arrivare alla totalità del reale ricorrendo a forme e generi differenti. Nel risvolto si accenna alla presenza dell’ironia, noi diciamo del rapporto ironico con la realtà che finisce col diventare satira: quella trionfa magistralmente, per modi inusitati, in Filastrode per Palermo Multipla. Conviene riportarne una parte come esempio di fuga dalla concisione che caratterizza la raccolta: “Palermo becera e signorile con la sua Piazza | della Vergogna la Curia Arcivescovile Palermo | di tutte le epoche – scomparse e risorte – | barocco teatro di vita angusta scena di morte | museo di alteri gattopardi e azzimati | cavalieri Palermo di oggi Palermo di ieri | Palermo di bianca busecca e rosse carnezzerie | di pecorino col pepe di fastose vuccirie | di sotterranee verità e conclamate menzogne | Palermo di bidonvilles di bianche cicogne | Palermo di cemento e di asfalti Palermo | di luci Palermo di smalti di miracolose | botteghe antiquarie di Sante Rosalie | e costose luminarie di mercerie in penombra | Palermo che vende che compra capitale | di morti ammazzati trionfo di torte | e gelati Palermo al gelsomino al benzopirene | Palermo che molla Palermo...”. Da notare subito l’ufficio di Palermo come dominante ossessiva, come suono di certi tamburi sempre uguale per certe danze africane. Filastrode è come una “licenza” dal contesto; essa rivela da quale fastoso lessico è filtrata la “concinnitas”, la capacità del poeta di arrivare al segreto di una città e, sopra tutto, al senso delle cose, comuni, usurate; in questa sorta di “mascarade” esse formano un violento telone della città che, vagola nel sonno della ragione: da quel sonno escono i mostri. Per queste ed altre satire si può concedere che la “indignatio” fa il verso. Non diversa indignazione troviamo in una pagina di Retablo di Vincenzo Consolo là dove per una Milano ostile, vagellante ha luogo il brano: “Arrasso, arrasso...”. Meno accesa si fa poi la satira, ma non meno incisiva: quella sugli Irreversibili e l’altra A un poeta affetto da sindrome di Salieri. Esse ci fanno pensare che Zinna ha frequentato scuole dove c’era il latino, e perciò la Satira IV di Orazio torna alla memoria, quella nella quale dice di un poeta – Lucillo – verseggiatore torrenziale: «nello spazio di un’ora, disinvolto, egli dettava duecento versi, come fosse cosa grande». Si parva licet..., osserviamo che l’impegno morale non è diverso nei due poeti; ma mentre il Nostro può arrivare a un aperto “j’accuse”, Orazio, per la sua situazione sociale, e in una Roma dove i potenti potevano punire, si limita a criticare i costumi e non coloro che li hanno corrotti; finisce così in una sorta di intellettualismo etico, in una euthymìa, in una riposante tranquillitas animi. Un altro aspetto della raccolta è quello intimistico; senza ritorni a deprecabili, lontane “confessions” di “enfants du siècle”, come è accaduto a un nostro poeta “nazionale” e ad altri della “race jacasseuse” (Baudelaire), Zinna non parla di sé ma di fatti, di oggetti, di “cose” per trame suggestioni, metafore. Nella dilagante letteratura della memoria egli trova una nuova maniera per la sua memoria affettiva, magari con qualche iniziale concessione a modelli classici – con deliberata euritmia – che subito dopo danno luogo a icastiche rappresentazioni: “Torno nei luoghi della consuetudine spoglio | del consueto a riguardare con animo quieto | terre e mari cicli e colli fogli e foglie | le rintracciabili spoglie mutate le lenti – | un lume le potenzia – dell’anima”. Si tratta de Il lume che con le sue radiazioni illumina ciò che rugge dentro con uno srotolarsi di motivi che arriva a una emblematica dissolvenza: “Quel lume era lì rugginoso e calpesto in luogo | abusato trascinato dal vento (non s’era accorto | nessuno che in fondo non s’era mai spento)”. Anche là dove – come in Casablanca – l’evento investe il poeta, con sotteso strazio, prevalgono ora le immagini, ora una sconsolata ironia per non rendere complice il lettore, per una sorta di pudore d’anima. Il folclore non si congela in realistiche indicazioni; quelle hanno una funzione: il pupo (in Pupaccena), che i morti solevano portare ai bambini nella commemorazio- ne, diventa astrazione in un clima e in un tempo che diventa bergsoniana durata reale. In quella solo l’intercessione di uno “specchio ovale”, di una “singer di larga pedovella”, e “grandi fotoritratti che schiudevano | a immagnari sorrisi i volti pensosi i bisavoli”. Si noti il sapiente gioco stilistico per un comune ritratto, la dislocazione e il movimento del verso che rendono vivi gli avi. E poi la meditazione su tutto ciò che si perde a valle, sulla caducità, col pupo che si sgretola nelle mani voraci del fanciullo: sorge, così, e investe: “l’in(d)izio – di come gloria si sgretoli | tra le mani febbrili del bimbo non c’è Carmagnola | che non ceda – propaggine estrema di un corpo | in tre giorni corroso – la testa così (forse | non più che un volo di rondine tra mare e pianura) | di frammento,in frammento si scioglie l’infanzia | come un giulebboso sgomento pupaccena”. Ora, a riguardare questa letteratura della memoria bisogna dire che essa non è soltanto cognizione di ciò che viene distrutto ma anche motivo per solenni riflessioni, per moralità leggendarie. Non andiamo oltre: la raccolta è così densa, ricca di motivi da spingere oltre lo spazio previsto. Ora che abbiamo cercato di far vedere quali e quanti frutti pendono dall’albero del nostro scrittore, un albero che non può essere un bonsai – posto a titolo, a epigrafe ironica chiaramente rivolta agli “irreversibili” e ad altri – possiamo dire che con questa poesia viene segnata una svolta. L’albero grande, che in passato si presentava fastoso, lussureggiante, ha lasciato cadere molte foglie e ha mostrato i rami destinati a restare, a dare vita ad altri fiori e foglie. Nelle famose “querelles des anciens et des modernes”, che hanno caratterizzato la letteratura francese, che ne hanno promosso l’evoluzione e la continuità, Zinna sarebbe stato fra i “modernes” ma senza rinnegare gli “anciens”. Quelle “querelles” non sono mancate in Italia, con un radicalismo che non poteva avere effetti positivi. Il nostro poeta si è tenuto lontano, ha ascoltato – pur nella sua modernità – echi lontani per creare continuità nel segno della fantasia, del sentimento, ispirazione, gusto, eterne categorie della letteratura. E col segno dell’impegno morale, civile: Ballatetta Comisana 1984, Reykiavik New York Moscow – La Tartana – Legge Merlin. C’è nella diffusa reazione contro un nuovo, che nuovo non è, la chiara situazione di Leonardo Sciascia: «Mi sento dentro una dimensione di continuità, in una sicura, rinfrancante tradizione» (Nero su Nero, p. 208), senza che da essa vada disgiunta la poesia. Recentemente anche il misurato, attento prof. Gian Luigi Beccaria ha posto dei limiti al nuovo: «Lo spazio è stato conquistato dai media, lasciato alla confezione di consumo, alla mera funzione calda e oppiacea di libri o tutti riversati sul presente o sulla mera evasione. Io invece penso che i grandi libri vengono da molto lontano. Si danno la mano come in una lunga ininterrotta catena. Sono formati sulla base del principio che la realtà profonda non è mutata dall’antichità ad oggi». (“La Stampa”, 3.6.1989). Riceve la mano, “il lume”: “Si prende quel lume si ascolta il silenzio. | Avverto presenti le assenze”. C’è, sì, il prevalere del sentimento in quella splendida dissolvenza, e noi potremmo dire che si risolve in una superiore concezione dell’arte. Ma la poesia non va in senso unico, razionale o sentimentale; ci sono i diavoletti, o gli “spiritelli”, come li chiamava Pirandello. Il lume: è una grande metafora, un simbolo polivalente: una luce che viene da lontano (non circoscritta); le assenze presenze, la continuità, la tradizione, l’eternità della letteratura, quando non arriva alla privatizzazione o alla commercialità.
1 L. Zinna, Bonsai, Ila Palma, Palermo, 1989. |
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