Il libro di Filippo Giordano colpisce i sensi del lettore
con la generosa musicalità dei versi, la sorprendente ricchezza del linguaggio
apparentemente semplice ma pregno di eleganza forbita, una cornucopia ridondante
parole sciolte nel labirintico girovagare dei versi.
Leggere la lirica del Giordano è come affacciarsi su una
balaustra sospesa su di un paesaggio incantevole, dove lo sguardo migra sullo
scorrere della tranquilla vita quotidiana, dove aleggia un sospiro malinconico
che malinconia non è, ma stasi di un occhio attento e disilluso, teso tra una
palese e muta ironia ed un enigmatico sorriso giocondiano.
Metafore pacate s’alternano a temperati echi leopardiani,
in una fusione emblematica acerba e personale che il Giordano ci dona con la sua
serafica condizione di vessillario e mediatore del verbo.
È, quella del Giordano, una poesia pacata, un discorrere
lento senza affanni o assilli esistenziali, un mero quadro della vita dipinto
con il reale colore dell’umana esistenza, senza arcobaleni improvvisi a spezzare
la mediocrità dell’essere.
Non vi è luce di speranza nella poesia del nostro autore,
perché il Giordano non la ricerca e non la brama, perché la sua poesia è
certezza tangibile, non aleatoria. Gli antipodi si incrociano tra l’essere e il
non essere, l’amore e la morte, il divino e l’umano, nell’eterno gioco che fa
del dilemma il fulcro della vita.
Solo la
bellezza (della poesia) potrà indurre l’anima alla salvezza.
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