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Il titolo fornisce al lettore qualche provvisorio indizio. L’isola è già di per se stessa un luogo mentale lontano ed isolato, circondata dalle acque, non facilmente raggiungibile. A volte appare nitidissima all’orizzonte, altre volte si nasconde dietro le brume, misteriosa, inesplicabile. Forse solo con il sogno, o comunque con altre operazioni come il ricordo, si presta ad essere più facilmente esplorata. Ritroveremo pertanto questi due elementi nel racconto, a volte intrecciati, altre disgiunti ma intenti a rincorrersi, in un percorso apparentemente senza fine.
In quale spazio o in quale tempo ci troviamo? Tutto appare sospeso, la figura femminile di Bice, la spedizione dei Mille… “Tornò a fissare il mare, quasi piatto. Il vento era caduto ormai del tutto e il vapore faceva affidamento soltanto sulla forza delle macchine. Il rumore era cresciuto via via di intensità, ritmato tuttavia alle sue orecchie con la cadenza antica delle triremi che avevano battuto le stesse rotte del Tirreno. Alcuni scogli a pelo d’acqua bucavano con le loro teste scapigliate la superficie chiara.” La scrittura di Ruffilli è calma, tranquilla, descrittiva; ma è pronta ad ingannarci, a sorprenderci: d’improvviso ha uno scatto, rompe le certezze della descrizione, ci riporta ad un passato mitico (le triremi), scompiglia le nostre certezze, proprio come gli scogli che rompono la superficie del mare con le loro teste scapigliate. La seconda parte del racconto, il soggiorno in Sicilia di Ippolito Nievo, sembra cambiare registro, con i suoi piccoli avvenimenti quotidiani: la raccolta della documentazione presso l’Intendenza delle Finanze, la rivisitazione di precedenti conoscenze e amicizie, le cene, la musica… “Che folla! Il teatro era stracolmo. Dai balconi dei palchi rigurgitavano le braccia e i décolleté, un luccicare di gemme e di lustrini, in un frullare di ventagli. Bisbigli e occhiate si incrociavano da un capo all’altro della sala…..La situazione appariva rovesciata: da vero palcoscenico faceva la platea e, i protagonisti veri, erano proprio gli spettatori.” Dove, ancora una volta, lo scatto della prosa, con l’uso dei verbi rigurgitare e frullare, conferisce alla descrizione una potenza pittorica e dinamica inusitata. Ma i piccoli avvenimenti quotidiani, i colloqui, gli incontri, sono anche loro il mezzo con cui la dilatazione del tempo irretisce il protagonista, colloca le proprie trappole: il cuneo dei ricordi della sua vita al Nord (Verona, Milano, Venezia…), ma anche la passione amorosa, e non solo carnale, che Ippolito sviluppa per Palmira: “ Un attimo che smetteva di essere fuggente e restava disteso lì con noi sul letto….Come se il tempo, rimasto preso tra i corpi e le lenzuola, si lasciasse andare molto più lento e pigro, allungando di ore e ore la prima metà della giornata.” Tutto concorre a trattenere Ippolito in una dimensione sospesa, tanto da far sospettare che il racconto sia centrato, al di là delle apparenze, su questa tenzone, il tempo dilatato che trattiene, inviluppa, e il personaggio che tenta di liberarsene. Ma l’uscita risulta impossibile, non può avere successo se non con la morte. E’ per questo che nell’ultima parte del libro il naufragio dell’Ercole, più che una disgrazia, assume il significato di una morte ricercata, un suicidio: la lentezza esasperante (anche qui i ricordi: il Friuli, Udine…) e la precisione con cui viene descritto - tra le più alte pagine del racconto - hanno la lucidità di certi sogni che ci sorprendono quando ci siamo svegliati. In essi vorremmo rientrare, ma non è possibile. E’ invece possibile iniziare di nuovo la lettura del libro di Ruffilli, alla scoperta probabile di altri significati, di altri dettagli: mi sembra questo il segno forte della qualità della sua scrittura. |
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