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La collana di “Poesia” delle Edizioni del
Leone (Spinea-Venezia) continua a stupirci non solo per la quantità, anche per
la qualità dei testi che propone. Del resto, a dirigerla è un poeta di tutto
rispetto, Paolo Ruffilli, autore di varie sillogi che hanno avuto il consenso di
critici autorevoli. Ora vi è stata pubblicata una densa raccolta di Lilia Slomp
Ferrari, una poetessa bilingue del Trentino Alto Adige, molto esperta sia in
italiano che in dialetto.
La raccolta reca un’acuta prefazione dello
stesso Ruffilli, che insiste molto sulla motivazione dei ricordi che percorre
tutta la materia ispiratrice, tanto da farne “una sorta di epica della memoria
(…), ambientata nel mondo stratificato e vivido dei propri luoghi (la
terra, la città, la casa…), della cui cultura intramontata e forse
intramontabile la poesia dell’autrice si erge a summa e a codice,
facendosi espressione e amplificazione della voce di un’intera generazione,
delle sue memorie e delle sue speranze”. A parere di Ruffilli, Lilia Slomp
Ferrari s’innalza a farsi “cantore autentico” di questa realtà, anche se “un
cantore ombroso, mosso da un’inquietudine nervosa”, piegata alla urgenza della
ricerca delle proprie radici, per ritrovare “il senso di una gente sempre viva e
destinata a sopravvivere non solo come realtà culturale ben al di là dei
singoli”.
Passando, poi, al registro stilistico della
raccolta, Ruffilli opportunamente parla di “una lingua reinterpretata con
intonazioni personali che danno al verso la misura di un racconto insieme
avvolgente e graffiante”. Ancor più oppurtunamente la stessa poetessa, in una
noterella posta a mo’ di appendice personale, parla di una sua predilezione
particolare per l’uso dell’endecasillabo, che – lei dice – la “percuote nella
sua malia”, d’accordo – aggiungiamo noi – con tutta la tradizione della poesia
italiana, con rare eccezioni di altri ritmi più brevi.
Non si è detto che il titolo della raccolta
è tratto dalla prima poesia, che s’intitola appunto Come goccia di vetrata
e rievoca l’atmosfera sibillina di un marzo lontano, in cui l’autrice
ritorna mentalmente “al fermo tepore” della casa paterna, con la spensieratezza
di un tempo remoto, fatta di “picchiate sbalordite”, di giochi, sogni, pagine
bianche del diario personale da riempire.
E saranno riempite, quelle pagine, di
illusioni e d’inquietudine, di gioie e di tormenti, d’incanti e di follie
giovanili, di ebbrezze e di “innocenza nuda”, di declini rugginosi dell’anima,
di ombre e “appigli improbabili”, di sentieri percorsi in “pifferi di fiaba”, di
sussulti straordinari e perfino di fallimenti oscuri, di melanconie anche
segrete.
Ormai, raggiunto il bel traguardo dei
sessant’anni, le persone care “dormono sulla collina” il loro sonno eterno e le
loro voci “frusciano” appena “fermate da Lee Masters nel suo canto”. Non ci sono
più nemmeno gli amici di una volta. Su tutto domina il nulla eterno, come si
legge nell’ultima lirica: “Ho solo il raso che somiglia a rosa |
senza profumo, senza più frontiera, | vagabondare di parole cieche | uniche
stelle, fiato di falena | e questa pena, punta di pennino | spuntato sopra fogli
di mistero. | Raduna l’uragano i suoi sospiri | sparsi a raggiera come
cantilena. | Ed era solo ieri il fermacarte,”
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Recensione |
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