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Gate, gate, gate
Poesia dialettale, immediata e istintiva quella di Maria Antonia Maso Borso
autrice della recente raccolta Gate, gate, gate. La scelta del dialetto veneto
con contaminazioni vicentino-trevigiane è indice di una fervida ricerca poetico-linguistica in cui la spontaneità, la tradizione orale e al tempo stesso
un a-storicismo lirico-elegiaco modellato sul linguaggio della coscienza (il
noto “maternese”), assumono una netta presa di posizione nei confronti di una
formale artificiosità tipica della poesia contemporanea.
Il flusso dei ricordi,
della storia collettiva del popolo veneto e di quella individuale della
scrittrice emergono costantemente dai suoi versi innati e pre-logici incanalati
su nostalgiche epifanie che riadattano il presente all’emozione del passato. La
consapevole riappropriazione etica della realtà sociale ormai sedotta dal
benessere e dallo stress lavorativo di un sistema capitalistico progressista,
conduce la Borso ad un continuo confronto con il vecchio mondo contadino: “Na
volta jèra fame | dèsso ghe xe el stress, | el progresso va vanti | el lassa indrìo i
ricordi: | xe sempre dolse-amaro | el pomo che te mordi”. La poetessa ci riporta al
sentimento autentico delle cose quando descrive il significato del termine
contemporaneo big-bang con una metafora di notevole intensità definendo
l’universo come la “zuppa divina del creato” e ritrae momenti della vita
quotidiana popolare in cui la saggezza del passaggio tempo si esprimeva ancora
con “le feste del Signore e dei suoi Santi”. E la morte è sempre presente come
sacro monito a rivedere la vita sulla base di valori ancestrali che escludano
l’avidità, l’arrivismo, l’opportunismo e il senso del possesso.
Una morte che
non fa più paura perché: “Avendo ben vissuto, credo perfino | che alla negra
signora con la falce | si possa dare la manina bella | e gate gate gate”. Il
passato riemerge armonioso nelle memorie di dolci figure affettive, nella
rievocazione di feste religiose e popolari, nei ricordi puri di un’infanzia
lontana ma ben presente negli affetti dell’autrice che ritrova nelle parole
dialettali suoni onomatopeici densi di significati archetipici. Così riesce a
creare una poesia sull’ “òstrega”, sugli “strafànti”, sui “ghingheri”, sul “panpalugo”,
sul “fabiòco” creando immagini e storie pertinenti oppure su una serie di
termini dialettali come nella poesia Parole nostrane: “Bàgolo bigolìna
betònega brighèla | parole stranbe de l’infansia bela”.
E dall’infanzia trae la
dimensione ludica ben espressa nelle filastrocche di tradizione orale che
introducono poesie elegiache, nostalgiche visioni delle profonde stratificazioni
operate dal tempo sull’anima.
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Recensione |
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