I vuoti del mosaico
È fortemente evocativa questa raccolta di liriche di Gianfranco Jacobellis,
nelle quali la meditazione sull’esistenza è caratterizzata da toni pacati e da
una lieve nota di malinconia.
Se il lungo viaggio della vita è giunto all’ultima tappa, l’attesa di qualcosa
che verrà non genera timore nel poeta in quanto muore davvero solo chi si chiude
in se stesso escludendo gli altri (“La vera morte”).
Con i suoi versi Jacobellis riesce a suscitare nel lettore emozioni intense e a
cogliere sia il senso di fragilità dell’esistenza che la bellezza della natura,
con cui raggiunge una vera e propria simbiosi: “I miei passi / non fanno
rumore / come quando / cessato il vento / resta in silenzio / il mare”.
Anche altre immagini care all’Autore suggeriscono questo connubio: il mosaico è
come un cielo stellato (“La mia stella polare”), i cui vuoti sono le tessere
mancanti, i momenti non vissuti.
Sebbene non si possa amare la morte, è possibile tuttavia accettarla – come
l’autunno, “parabola discendente del volo di una freccia dall’arco di un Dio”
– perché è l’inevitabile prosecuzione della vita.
Ricorre l’immagine della clessidra, i cui vasi comunicanti rappresentano
l’inizio e la fine, la sabbia che diventa cenere, la vita “che non sparisce ma
si trasferisce” in qualcos’altro.
Magistralmente Jacobellis ha arginato il rischio di quel soggettivismo
esasperato che è un po’ il limite di tanta poesia odierna, riuscendo a
comunicarci il suo dolore in modo tale da farcelo sentire anche nostro.
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