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Introduzione a
Neraneve e i
sette cani
di Brina Maurer
la
Scheda del
libro
Luigi Fontanella
Stony Brook, State University of New York
Espressione di
un’anima gentile e travagliata, questo libro dal titolo ironico e agrodolce si
presenta al lettore in tutta la sua nudezza, il suo candore, la sua atroce,
sublime rivelazione. Rivelazione di una vita condotta all’insegna della ricerca
di un proprio io - quello della stessa Autrice, Brina Maurer, alias Claudia
Manuela Turco – soprattutto contro la Violenza e la Crudeltà, in qualunque forma
esse siano perpetrate nella nostra società. Proprio Alla ricerca di sé è
intitolata la prima sezione del libro.
A
sorreggere quest’assunto c’è un filo-animalismo coniugato a un pacifismo di
fondo: veri fari di un percorso esistenziale di cui il poema in questione
intende testimoniare drammaticamente, ma anche come in una sorta di fabula
domestica, le varie tappe personali, dall’infanzia all’adolescenza, fino
all’attuale maturità.
Colpisce, di fatto, fin dalle prime
pagine, l’allure diaristica, mista a una delicata affabulazione fiabesca,
ora tragica, ora tenera, ora straziante, ora soave. A esserne protagonisti sono
sette cani, che sono stati (e anche in futuro sempre lo saranno) compagni
fedelissimi e affettuosissimi dell’autrice, palinodicamente denominata, in
questo denso poema, Neraneve: rovescio o sconfessione ironica
della ben più celebre Biancaneve i cui sette nani qui sono appunto i
sette cani che hanno accompagnato fedelmente la nostra neo-principessa.
Ecco
allora che, attraverso il susseguirsi dei cani Mileto, Diana (uccisa
crudelmente), Susanna, Tara, Tamara, Glenn (il cane in cui Neraneve meglio
riconoscerà “le proprie fragili ossa”) e infine Mughetto, sfilano
cronologicamente luoghi personaggi circostanze episodi biografici in cui questi
compagni-animali scandiscono il viaggio terreno della loro
custode-poeta-biografa. Il tutto articolato attraverso il ritmo cadenzato della
narrazione-in-versi, fedele, in questo, a un principio poietico che richiama
irresistibilmente un libro di Nelo Risi, significativamente intitolato Di
certe cose che dette in versi suonano meglio che in prosa, opera di poesia
tra le più intense del Novecento italiano, che fra l’altro nel 1970 valse a Risi
il Premio Viareggio.
Sono
versi, questi di Neraneve, che raccontano storie di violenze e di soprusi
contrapposti alla ricerca di un Candore, di una promessa d’innocenza che forse
solo il mondo animale (i cui rappresentanti identificati nei cani sembrano
essere gli unici esseri che dimostrano di possedere un’anima) può donare
all’umanità senza chiedere alcuna contropartita. E davvero vivi e coinvolgenti
sono i regesti di alcuni momenti esistenziali rivissuti in questo poema,
soprattutto quelli relativi all’infanzia e all’adolescenza, spesso documentati
in modo straziante: si leggano esemplarmente componimenti come “Scure di luna”,
“Bagno di sangue” e “Ingiallimenti” (quest’ultimo segna forse l’apice più
tragico e amaro).
` Pure,
a petto di tutta questa travagliata Erlebnis, ecco farsi largo, a tratti,
squarci improvvisi di tenerezza e di pura quanto visionaria liricità:
Per accendere
fiammiferi nel
buio,
cara Virginia
Woolf,
a volte basta
immergersi
con lo sguardo
in un cielo
stellato,
e bagnare le ciglia
degli umori della
notte.
Nell’eterno
abbraccio
la catena si libera
dei ceppi,
e il giorno si fa
luce verde.
La Poesia può,
allora, allungare la sua mano salvifica; la Poesia – dico - che, sola, è in
grado di armonizzare un corpo e un’anima dilaniati. Cito la vibrante chiusa del
componimento “La violenza delle immagini”:
Neraneve
camminerà per le strade del mondo,
con anima e psiche violentate,
ancora e ancora,
da edicole e vetrine,
da mass media parole e immagini,
da corpi oggetto di vendite e offerte.
Solo il profumo della poesia,
in pittura,
riuscirà a riconciliarla
con se stessa.
Con il suo corpo.
E saranno ancora
e sempre i suoi cani a regalarle quel “riscatto” antropologico che non sempre
gli Umani sono (stati) in grado di offrire senza nulla richiedere. È il caso
della cagna Tamara, salvata dalle fiamme da Neraneve, in quegli anni giovinetta
allo sbando, al centro di una famiglia in disfacimento, in mezzo a continui
litigi dei propri familiari. Tamara, dunque, diventa la sua compagna di
(s)ventura; Tamara sua consolatrice; Tamara sorella di Neraneve (“davvero
sorella, / davvero fiamme della stessa candela”), fino a quando sarà vivo il
filo che le terrà in vita; loro che in fondo sono i “soli vivi tra i morti”.
È a
quest’altezza, ossia quando l’autrice arriva alla rievocazione di Glenn, il
sesto cane, che lei si dà una ragione di vita: la ragione centrale di un
Femminino assoluto che possa anche escludere la maternità, non in un senso
solipsistico/egotistico ma, sulla lunghezza d’onda dell’insegnamento di una
Marguerite Yourcenar (richiamata due volte in epigrafe alla soglia del poema) e
di una Virginia Woolf, sentirsi – pur senza figli – impegnata a essere utile per
i figli di altre donne (“Le donne senza figli, / possono fare tanto / per i
figli delle altre”). In effetti, tutta la seconda sezione del libro (L’handicap
di Byron) è incentrata sulla figura di Glenn, nel quale Neraneve riconosce
se stessa a cominciare dalle “proprie fragili ossa”. Creatura con la quale
condividere il proprio mondo, Glenn (cane sul quale l’autrice tre anni fa ha già
pubblicato il libro Glenn amatissimo) diventa da subito il compagno
ideale insieme con il quale combattere la cieca brutalità degli uomini, la loro
arroganza e ignoranza. Crescere insieme con lui è capire che l’amore è
conoscenza e presenza, nel rispetto della democrazia delle anime. Il loro legame
affettivo è sinonimo di “fuoco e acciaio, / sete e scintilla, velluto e pioggia
di stelle.” I versi del poema, a questo punto della rievocazione biografica di
Glenn, si concentrano in una versificazione di lancinante forza espressiva e
immaginativa: un tour de force in cui le parole sembrano distendersi
spasmodicamente come in un tentativo estremo di fondere magia di natura e
magia del corpo, in uno sforzo supremo di amorosa coniugazione
vegetale/animale. Si veda, emblematicamente, il componimento “Nel bosco
incantato”, ricco di suggestioni zanzottiane intrecciate al poema drammatico
Manfred di Byron su cui Schumann avrebbe scritto una celebre ouverture, e
anni dopo Čaikovskij
avrebbe composto una delle sue più potenti sinfonie. Indubbiamente questa, a mio
avviso, è la sezione più vibrante e letteralmente commovente dell’intero poema;
sezione nella quale viene seguito con sentimento fortemente partecipato l’intero
excursus esistenziale di Glenn fino alla sua morte. Neraneve, in una sorta di
sublimazione metafisica, avvertirà una simbiosi totale con il cane che la sua
morte non potrà mai disciogliere: Glenn sarà il suo alter-ego, il suo spirito
vitale, la sua coscienza, il suo canto sacro, il suo mantra. Cito esemplarmente
le due stanze finali:
E sul letto,
il compasso tra il braccio e il fianco
non stringe più la vita;
nel vertice dell’ascella
non fruga più,
il tuo nasino sorridente.
La mano
accarezza il copriletto di marmo,
ma io sento il fuoco.
Perché memoria
è vita che non muore.
Il poema si
conclude con la terza sezione intitolata La perfezione nella quale
campeggia la figura del settimo cane: Mughetto, alias Principe Maghetto o Victor
Mhugo. Sarà questo “Principino Azzurro” a saper rieducare “il cuore rattrappito”
di Neraneve e a ritemprare “il suo spirito rattoppato”. In lui la donna
riconosce il proprio contrario, e dunque questa complementarietà spirituale sa
donarle idealmente la perfezione, cioè tutto ciò che le manca. E, al pari
del grande scrittore francese, Mughetto-Victor Mhugo, “adora l’odore
dell’inchiostro, / addenta il cappuccio della penna, / annusa le pagine del
vocabolario.”
Quest’ultima sezione sembra ritrovare quella gioia primigenia grazie al “divo
ballerino” qual è Mughy. Ma il tono della poesia, dopo la gioiosa sarabanda
scaturita dal comportamento sprizzante del Principino Azzurro, comincia a farsi
più riflessivo, a tratti perfino pedagogico (mi riferisco in particolare agli
ultimi tre componimenti), fino ad arrivare ad alcuni ragionamenti a mio avviso
quasi filosofici, laddove, per esempio, Neraneve si scaglia contro coloro che la
rimproverano “di essere un melo senza frutti”, ignorando il libero archetipo del
suo femminino di cui lei è simbolo e messaggera.
Così, a proposito dell’episodio
emblematico da lei raccontato, in cui in un incendio qualcuno lasciò morire un
cane per salvare un bambino, e quel bambino divenuto uomo stuprò la figlia del
suo salvatore, si potrebbe obiettare che quel salvatore del bambino non poteva
certo sapere, nel momento in cui lo sottraeva dall’incendio, che il
piccolo un giorno avrebbe stuprato sua figlia, ché ogni gesto di salvazione è
frutto di una generosità istintiva, fine a se stessa.
Poema
di riscatto e di catarsi profonda, Neraneve e i sette cani resta un
trittico poematico fluido, fiabesco e complesso; indica un luogo ideale in cui
regnano la Pace e l’Amore, l’Armonia e la Gioia, in definitiva la felice
concordia del vivere; un Locus Amoenus, in cui vivere o morire – per dirla con
Breton – non sono che soluzioni immaginarie, perché la Vera Vita è altrove. Da
qui anche il sentimento, a lettura ultimata del libro, che l’autrice nello
scriverlo si sia come liberata di un peso, quasi avendo saldato un debito etico
con se stessa.
luglio 2016
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