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Adrian

Un puro folle. Tra sogno e realtà.

Una storia di ricordi (amava riflettere e spesso si ricordava degli insegnamenti del suo maestro) tra l'irrequieto e l'eccentrico o l'osservazione partecipe o trasognata. E in questo contesto cosa ci fa un gatto? E il collezionista di libri? Tutto da scoprire? Non proprio come certe parole: predicate il Vangelo e, se proprio necessario, usate le parole. “Peggio dell'ingiustizia c'è la giustizia senza spada...strana cosa è il cuore dell'uomo, specialmente se l'uomo tiene il suo cuore nella borsa...La nostra società si basa sul principio... : chi non lavora non guadagna e chi guadagna non lavora...Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza?...”.

Sembra che nel frangente tra realismo e trasognatezza, Di Stefano tante volte si rifugi nell'aforisma: fonte delle ricognizioni o punto base di allusioni, non disgiunto da un senso poetico che appare e scompare come per dimostrare quanto il più nasca dal mistero e dal groviglio delle contraddizioni:

“O Sorte, / come la Luna / mutevole, / sempre cresci / o decresci /...”. “...Parole: Menzogne siete, ombre vuote / che girano attorno alla vita!”...”L'incertezza è più ostile della morte. / La morte, anche se vasta / è soltanto la morte e non può crescere. / All'incertezza invece non v'è limite, / ...Non sappiamo di andare quando andiamo... D'amore non si muore, la morte non si ama...”.

E lo scampo poetico sa egualmente di precettistica o di massime che personaggi lacunosi, tra l'orribile e il distaccato dal reale ricercano, osservando il binario morto, più che la saggezza a senso unico. Per confermare quanto il gioco delle circostanze si riduca all'agognato frazionamento del consolidamento reale. Eppure tanti riferimenti : Eneide, Didone, Diogene, Leone XIII, Oscar Wilde, Dio, Penelope, Omero. Motivi conduttori di volontari riferimenti ai margini della cultura, per una esigenza di controcanto da illusione alla sopravvivenza di un banale mai fine a se stesso. Così prevale l' Alemanno, lo zingaro che ama la frutta secca. E l'eleganza teutonica viene a galla proprio quando sembra non esserci speranza.

Ma Di Stefano, tra atmosfere rievocative fa ricorso alla cultura per dimostrare che la vita altro non è che un tritume di nozioni, date, nomi, rievocazioni vomitate da accozzaglie di vicende che si ripetono all'infinito, divenendo prototipi, mezze figure o eroi mancati o accertati per dimostrare che di uno zingaro, di sua madre e del suo contorno di vita, la realtà è intrisa di materia informe fino a scoppiare, per ripetere l'eterna litania del monocorde personaggio tra gli svertebrati o geniali di fatto o di apparenza che non immortalano nulla, creando un logoramento da rovine.

Adrian, personaggio della storia, si definisce uno zingaro figlio di puttana, amante della frutta secca.

“Mia madre, una sinta dai capelli scuri ed occhi chiari...si invaghì di un uomo sposato e, complice un preservativo danneggiato o una concitata disattenzione, nacqui ereditando l'intemperanza di mia madre, la disaffezione di mio padre ed i tratti somatici di entrambi. Di mio padre so poco o nulla...”. Una premessa focalizzante che evidenzia uno stile compatto e lucido dai connotati distaccati che rispecchia l'attenzione verso particolari che scolpiscono e rappresentano ad un tempo.

Dello stesso autore, che da realista spietato e da osservatore coinvolgente, sa anche evocare da poeta quanto la fantasia non dica nulla di nuovo anche se può dirlo bene.

I dialoghi di Adrian non sono sfuggenti, compendiando spesso un'appropriata immedesimazione. “Sei felice?”gli chiede la ragazza, rispondendo: “Non m'interessa essere felice, vorrei solo essere contento. La felicità mi spaventa”. Preludio a un altro suo termine: “Sa finini! Tutto finisce!”. Il più delle volte, come accennato, a seguito di scene reali e simboliche, si inserisce il riferimento o la citazione a superare ogni diceria del momento: “...Bukowski ha scritto che il cervello ci dà abbastanza luce per sapere che vivere è, nel migliore dei casi, solo un sacrificio fatto ad arte”. E ancora...”il vino mi ha insegnato molte cose, soprattutto quelle che non si possono capire”.

Un modo di distaccarsi dalla materia al di sopra del raziocinio? Un po' come ha fatto Pasolini in Accattone, che, per andare al di là dello squallore, ricorre alla musica classica?

Non certo per superare la storia che non c'è ma per ricercare nessi logici o comprensibili, sempre più sfuggente? Come in aggiunta: “Se sbaglio esisto...la moda assolve alla necessità di conformità e novità...e la religione è piacere e sofferenza. Come la danza...”.

Luci ed ombre tra tanto dappochismo descritto. Un contrasto che vivifica storie e non storie, realtà e inverosimilità, dato che la parola è una ricchezza anche se si sperde.

Restando assiomi o punti di vista da non sottovalutare:“Le donne e i gatti faranno sempre come pare a loro...”.

Le allusioni proseguono, anche se non chiariscono come tenti di fare Adrian.

Un libro più di interrogativi che di risultati. Di analisi poste per lasciare tutto com'è. In nome dell'immutabilità che ci soffoca.

Recensione
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