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Ombríe
Era il 1995 quando – nella
prefazione ad Amor porét di Lilia Slomp Ferrari – scrivevo: “Affascinanti
metafore, limpide e nello stesso tempo enigmatiche queste che con voce melodiosa
ci canta la Slomp:versi che non vogliono ballare , perché vogliono contare le
ore che ancora ci restano, le ore impigliate come fiori nei capelli di donna,
capelli che conoscono l’alito del vento, le sue bugie, le occhiate delle nuvole,
le streghe nel momento di sospensione quando finisce la conta dopo il sei…” La
Slomp era allora al suo terzo libro di poesia in dialetto, dopo En zerca de
aquiloni (1987) e Schiramèle (1990).
Quelle due raccolte, pubblicate in un
periodo in cui l’autrice vinceva una serie impressionante di premi a livello
provinciale e triveneto (poi, saggiamente, si è data una calmata…), in anni di
eccezionale popolarità della sua poesia “metastasiana” come ebbi occasione di
definirla, quando questa poetessa trentina era imitata e persino “clonata” erano
sillogi preludio alla sua poesia più originale, più intensa, più importante. A
cominciare appunto da Amor porét che, a distanza di quasi vent’anni resta a
mio avviso il libro di poesia di Lilia più fresco, più felicemente risolto.
Questa
Ombrìe è la quinta raccolta di versi dialettali dell’autrice, a cui ne
vanno aggiunte altrettante in italiano: un libro pubblicato nelle Edizioni del
Leone, con la postfazione di Polo Ruffilli (direttore della collana di poesia di
questa Editrice, nonché uno dei più famosi poeti italiani degli ultimi decenni)
e con la prefazione di Elio Fox, benemerito e indefesso studioso del dialetto
trentino e della sua produzione letteraria.“Il dialetto permette di andare più a
fondo di una lingua nazionale, conduce direttamente ai sentimenti…” E del libro
scrive “che è un repertorio variopinto di immagini, dominato dalla delicatezza
dalla dolcezza del ritmo, e in cui il dialetto vive la sua stagione biologica
dell’immediatezza e dell’istinto nonostante il ritorno periodico della
consapevolezza e della cultura. “Della poesia della Slomp Fox dice che “le sue
liriche sono cariche di segnali e di simboli, che la pongono quasi al limite
della poesia dialettale (non solo trentina), nel senso che da tempo questo mondo
poetico ha tagliato i ponti con certo conformismo che lo teneva agganciato al
convenzionale”. È ovvio, quindi, che questa diversa cifra della sua poesia non
possa avere più alcun riferimento con il passato perché alle spalle non
troverebbe nulla in cui riconoscersi.
Personalmente penso che
qualsiasi produzione poetica non possa prescindere dal suo passato (anche
controverso), dal suo lascito. Vai a vedere, ad esempio, la poesia eponima ,
la prima poesia di “Amor porét “ e ci leggi i versi: “E ti luna endó
set | co
le to strìe? Perché te tasi? | L’è la me pèl che brusa | entrà le ombrìe | per el
me amor porét | che el gira nut | senza na scusa...” E ci trovi , oltre che la
parola eponima “Ombrìe”, la parola chiave che dà il titolo a quest’ultima
raccolta, la magnetizzazione di questa poetessa per il mondo magico, stregonesco
della natura, la sensualità (“l’ è la me pèl che brusa…), la paura del bambino
per gli orchi, la sua angoscia per “na storia sassina”. E quel bambino è
Lilia, è – pascolianamente – il poeta. Ma lo siamo in qualche modo tutti. Non c’è, a
mio avviso, una differenza di materiale poetico rispetto al passato: c’è un
viraggio di colori che si sono fatti più malinconici, una variazione di
atmosfere, una parziale differenza di linguaggio, che tende divenire più
astratto, talvolta forzando il dialetto, che è, biologicamente, un linguaggio
concreto. Lei ha ragione a cercare di non ripetersi, a cercare altre vie. Ma non
è sempre agevole seguire Lilia su questa strada; così come non è detto che gli
esiti siano sempre felici. In questo libro torna la poesia degli affetti
familiari (la madre, il padre ; a cui si aggiunge il marito a cui è dedicata la
poesia introduttiva).
Tra la sessantina di liriche della raccolta tre di esse
sono infilzate accanto come in una collana: e di tre perle si tratta. La prima,
“Strade perse” è un sonetto (ce ne sono altri) . Torna a piedi nudi l’infanzia
incarnata da un bambino, un Pollicino mancato perché non ha seminato i suoi
sassolini “su le rodane delle vie traverse. La seconda. “Feride”
– dolorosa
come lo sono le ferite dell’anima – parla del fiato che con gli anni si strozza
in un singhiozzo, dell’esistenza che è divenuta un gioco di ombre : “Ombrìa
delle to ombrìe l’è la to storia. La terza, “Quel dì”, è dedicata
– come altre
di altre raccolte – alla madre (… “ombrìe desperse ‘n font a quei to òci…”). A
indicare una linea di non rottura col passato, a ribadire in Lilia una fedeltà
lirica e umana al proprio mondo.
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Recensione |
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