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Cumulo di polvere
Il cielo
diviso

Mi
sono immersa tra la polvere luminosa di questi versi con la meraviglia di chi si
trova a leggere le pagine della ricerca esistenziale di un poeta-filosofo. I
poeti-filosofi sono una categoria a parte. Non sono affatto degli accademici e
non sono nemmeno socratici, se si considera che la filosofia occidentale ha
fondato buona parte del suo pensiero sull’argomentazione razionale. Eppure sono
consapevoli, proprio come Leopardi, dell’ineluttabilità dell’”arido vero”,
lucidamente affacciati sugli abissi del Nulla e nello stesso tempo capaci di
sfiorare con lo sguardo improvvisi squarci di sole e tenui riflessi di speranze
inattese. Infatti, nel bel mezzo di una meditazione desolata secondo cui ogni
cosa pare destinata a diventare cenere, Gianni Calamassi, scrive versi
emblematici e visionari del tipo:
Non l’avresti creduto che una stella / Più delle altre ballasse e gli
occhi / Avrebbero visto il niente o il tutto...
Già,
il Niente e il Tutto. Sembra qui quasi volersi intraprendere la strada dei
mistici, come nella teologia negativa di Maister Eckhart, il grande teologo
medievale per cui Dio non può essere definito in alcun modo e pertanto debba
identificarsi soltanto con ciò che non è in alcun modo identificabile, ovvero
con il mero “non-essere”. In tale visione il percorso verso Dio sta nel poter
vedere se stessi come esseri destinati al nulla. Non è necessariamente
nichilismo, visto che lo dice anche la Bibbia: non siamo che polvere e polvere
ritorneremo. E, come emerge dal titolo stesso della raccolta, in questi versi
dovremmo trovare cumuli di polvere, anche se spesso poi ci si imbatte in
quel pulviscolo che appare nella luce, ed attraverso cui si cammina in un
confondersi surreale di anima e di corpo. Dove si naviga a vista, tra dubbio
scettico e fede inattesa.
E
pertanto succede che il cielo sia diviso tra le tristi espressioni
dello sconforto e l’eroico furore che guarda verso un altro cielo e vibra sotto
la stessa cenere. Ed è in questo paradossale scenario che le parole assumono la
capacità di rivelare ciò che solo la vera poesia può dire senza dire, al punto
che
Le cose vere / non si
pensano mai / e nemmeno si dicono, / ci si limita solamente / a rappresentarle…
Ma ciò può avvenire solo attraverso la magia delle immagini che le parole stesse
evocano, traducendosi in un gioco di piccoli quadri dalle sfumature ora più
intense ora più tenui, tra macchie di sole e nuvole nere di pioggia. Non per
niente il poeta filosofo è anche un notevole pittore.
Un percorso esistenziale, dunque, che sembra fare il punto – pur sempre
provvisorio – di una vita in buona parte dedicata all’arte e nello stesso tempo
assolutamente normale, interiormente in perenne mutamento eppure sempre uguale a
se stessa. In un’atmosfera dove realtà e sogno si confondono, ricordi e sguardi
sul presente si intrecciano, mentre si volge uno sguardo perplesso, quasi
stupito, a un tempo che inesorabilmente fugge…
Unico il tema: / la
vita e la morte, il mistero / del tempo che continua / A scorrere senza fermarsi
La riflessione si approfondisce dunque attorno a questo nodo cruciale, dove la
fragilità umana è profondamente legata alla consapevolezza. Come direbbe Pascal,
l’uomo non è che una canna, la più debole dell’universo...ma è una canna che
pensa. Per il poeta filosofo questa è una chiave meta-filosofica, perché per
fare davvero filosofia, dice ancora Pascal, bisogna rinunciare alla filosofia.
Ovvero bisogna pensare per immagini e metafore, bisogna avvicinarsi ai confini
della propria follia e della contemplazione pura, apparentemente rimanendo con i
piedi ben piantati sulla terra, come il Calamassi ha sempre ritenuto di riuscire
a fare. E nello stesso tempo provare a librarsi nel vento come un corpuscolo di
luce per incontrare suoni e arcobaleni, accorgendosi che è in fondo questo il
modo migliore per rimanere se stesso, a dispetto del tempo che avanza: solo
spirito ed evasione.
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Recensione |
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