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Per evitare al lettore l’errore mio, quello di banalizzare, forse come scelta meno impegnativa, lo consiglio di leggere per prime le poesie alle pagine 72 e 73, fatto questo sarà più facile rendersi conto di come tutto il resto sia frutto di una scelta precisa dell’autore e non di un’esigenza imposta dalle sue inclinazioni.

Non disdegna certo d’attrarre, questo Luciano Cauzzo senza bibliografia senza risvolti senza pre/postfazioni introduzioni fideiussioni senz’altro; con una versificazione che non sottostà a nessuna delle norme date della poesia, neppure a quelle più libere, e pratica invece una specie di rimozione molto battuta e libera anch’essa la quale sorte un effetto particolare e non risulta forzata, in qualche caso particolarmente significante. A volte procede invertendo le sequenze, spesso rima al mezzo, è interessante la sequenza che si attiva e s’interrompe da un verso bello e breve ad uno interminabile più che dubbio (p. 9) ed in particolare “Vibra la foglia al vento d’Estate | e mi ricordo passate stagioni di giochi di luce | e mentre un solo accordo mi conduce”, dove il verso centrale viene diviso dalle rime fra quello precedente e il seguente. Accattivante anche quando (p. 25) Propone una descrizione che plana su volteggi che diventano cornacchie, e se una soave melodia percorre il sogno è subito negata ed assorbita dalla cappa che lambisce il cielo. Si parla di Padova, ed al lettore dispiace un poco per la città. Questo è certo quanto l’autore non voleva rinunciare a dire ma quella melodia soffocata sotto i portici era troppo poco per riscattarsi agli occhi dei padovani, forse troppo poco anche per ammettere il suo coinvolgimento emotivo, e allora? E allora ecco la rima degli ultimi due versi: “e tutto finì com’era cominciato: | una bambina che mangia un gelato.”, la rima propone soltanto sé stessa, senza significanti indotti, non nega quanto detto prima né lo contraddice, semplicemente lo bypassa , lo salta proditoriamente, come proditoria è la rima stessa ma il risultato è che Padova dispiace meno che prima al lettore.

Nella sezione “Minime” mi pare d’avvertire un che di presuntuoso, non nelle poesie, che sono davvero minime, ma negli immensi spazi bianche che il loro minimalismo si trascina dietro, che a volte mi è parso sussurrare “dopo di me il nulla. Si fa perdonare altrove, Luciano Cauzzo, dove non sfugge al rischio di diventare asfissiante nell’aggredire il lettore da ogni parte negandogli anche un angolino bianco in cui rifugiarsi per riprendersi.

Vi è una poesia che, a mio parere, racchiude tutte le migliori possibilità di questo autore: lieve ma non leggera profonda ma non inabissata leggiadra ma non faceta, peccato che la sua brevità rischi d’assimilarla all’aforisma, sempre più di moda e sempre meno spesso, e questo sminuirebbe certo la poesia. “Frastuono non mi prenderai | voglio essere marmo muto | carne che non sente il minuto | vibrazione minerale | armonia universale.”.

Credo che la misura contraddistingua questo libro nel suo insieme: non vuole essere ciò che non è e non è ciò che non vuole essere nella veste come nel contenuto, l’acquarello di copertina a grandezza dell’originale di E. Toniato ritrae Marsango, la carta pesante e vagamente diafana la stampa nitida lo stampatore che ha un logo da casa editrice ma si firma FOTO-LITO Bertato, e più ancora che la grande assenza di un pre/postfatore è forse l’assenza di un grande pre/postfatore a concorrere all’esatta misura ed a riportarci alla poesia.

Recensione
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