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Alessia e Mirta
La prima lettura di
Alessia e Mirta porta a pensare ad un romanzo di formazione: due vite,
anzi una vita e una non vita, che si intersecano senza incontrarsi se non nello
spazio poetico della pagina, due storie, due viaggi – uno fisico, l’altro
psichico – l’iniziazione all’eros per la prima e al non luogo del ricordo per
l’altra.
Raffaele Piazza,
nella circostanza, gioca sui personaggi, li vive con il filtro emotivo della
scrittura, rendendoli al lettore nella luce metafisica di una realtà opaca,
giustificabile attraverso i riferimenti ai luoghi, alle situazioni, all’essere
che si trasforma senza mai reificarsi, soprattutto in un caso.
Verrebbe da
associare la scrittura di Piazza a quella di Valentino Ronchi che, in Anna e
Mélanie (Lampi di Stampa, 2012), percorreva una ricerca simile, pur partendo
da presupposti diversi, più cerebrali, metapoetici. In verità, per Alessia e
Mirta il processo di personificazione e di formazione deriva da una forte
esigenza, anzi disperata, di realtà. Alessia, ovvero l’adolescenza compiuta, è
in sé e per sé sia se stessa, sia l’iniziazione sessuale, la spinta verso una
vita da vivere, scoprire, abitare nelle sue necessità fisiche, emotive,
plastiche verrebbe da dire; Mirta, in perfetta antitesi, è rappresentazione
figurale della vita che si è data e tragicamente conclusa e l’Autore la
tratteggia quasi fosse un personaggio in bilico tra D’Annunzio e Ivan Graziani
(come non pensare alla splendida Signora bionda dei ciliegi?); è un dato
di fatto, Mirta, fantasmaticamente viva nel ricordo, come nel miglior Lee
Masters.
Ben nota la
Serofilli, nell’acuta prefazione, di una spiccata tendenza del Piazza alla
ricomposizione diaristica del fatto poetico, alla didascalia, quasi per esigenza
di verità, realismo.
Certamente il
fattore autobiografico gioca e molto nella ricomposizione emotiva del ricordo,
del già dato e per sempre. Eppure non è possibile circoscrivere Alessia e Mirta
al semplice e riduttivo riferimento storico o del vissuto. Alessia pulsa in sé,
Piazza la dà al lettore per negazione (lei non è né Laura né Beatrice),
la tratteggia, anzi la staglia come dal marmo, con l’idea di mettere in
ordine la vita: così l’esigenza è il dato, il puro senso di ogni giorno ne
detta le mosse, i respiri (mi sono venute, non mi lascia e sono stata
promossa). Vive così, per accumulazione emotiva, un personaggio che annota,
prova, sperimenta, gode, quasi l’esistenza si riducesse all’attimo da carpire
pienamente e drammaticamente.
Mirta, al
contrario, è in sé per sempre, fotograficamente: un’icona molto vicina al
Visiting angel così caro a Montale: è Mirta a dettare parole (grazie per
avermi dettato questa poesia cfr. pag.38), la sua consistenza è un riflesso
nello specchio, così verosimile, duro da toccare, prendere nel buio. Il
suicidio, poi, la reifica nell’atto finale per sempre e – torna in aiuto Montale
– la sua essenza sopravvive come portafortuna, augurio di felicità.
È dunque un mondo
ossimorico quello che ci rende Piazza, in cui gli opposti, pur tanto lontani tra
loro, tendono a coincidere nella drammaticità dello spazio poetico. Eppure è
così dolce l’anima vergine di Alessia, così lucente Mirta (esisti più
di prima ora d’estate, cfr. pag. 42) che non è possibile ridurre la ricerca
poetica dell’Autore al semplice realismo biografico. Piazza, al contrario, ha in
sé il respiro metrico e connotativo dei poeti veri, completi e riconoscibili per
forza visionaria e resa plastica dell’emozione. Cosa rara, oggi.
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Recensione |
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