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L'ultimo poema di Scarselli mi ha trasmesso un disagio così
marcato che al termine della lettura ho provato un certo solllievo. Questa
emozione (che, si badi, non è forse lo scopo dell'opera) ha intralciato il
compito di recensire il libro, rendendo difficile districare l'effetto prodotto
dal testo dal significato portato dal testo. Tale difficoltà appare comunque
costitutiva di una poesia che "eccede" provocatoriamente sia per forma che per
contenuto.
Bisogna quindi armarsi di coraggio per affrontare le
atmosfere similkafkiane, le figurazioni cruente e la sottolineata lamentosità
metafisica del poema. L'invenzione visionaria è onnipresente, si moltiplica e si
ripete, ipnotica, vischiosa, furibonda. Il punto di vista è quello della vittima
impotente, consapevole e, come sempre in questi casi, anche un po' colpevole.
Il tema che emerge qui con dirompente evidenza è (potrebbe
essere anche il principale movente, ma non è detto) l'odio per il corpo, perla
sua realtà che emerge nella patologizzazione, per la sua fragile manipolabilità
(tema attualissimo). Il Palazzo del Grande Tritacarne è dunque l'invenzione
fantastica e allegorica che dovrebbe metterci in guardia da un tempo presente
incapace di offrire possibilità di riscatto, ma solo remote e temporanee vie di
fuga. Così il disagio che ho ricordato all'inizio rivela una sintonia
testo-lettore ben giustificata. La malcelata rabbia rivestita con una fervida
immaginazione ordinatrice è contagiosa. Ed è qui che Scarselli mostra la
complessità del suo lavoro, nel nascondere (ma non del tutto) un'utopia
grandiosa. La sua terrificante verità lascia il segno.
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Recensione |
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