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Bruna

Come essere donna di passione e pazienza

Ho amato Bruna fin dal primo momento, ma poi ogni altra pagina è stata un godimento degli occhi e del cuore. Degli occhi perché questa Storia, la casa, anzi “le case”, il giardino, i fiori, le strade, le scale, la fabbrica, gli oggetti nominati e descritti, i personaggi così bene caratterizzati, rimangono nella memoria di chi legge come fossero esperienze vive, vissute di persona.

...Bruna era nata il nove settembre del 1907. Aveva i fianchi tondi, fatti per diventare madre, il carattere affettuoso e la magra prospettiva di restare nubile. La bellezza dei capelli scuri, il colorito leggermente ambrato, gli zigomi alti, gli occhi neri come carboni, le fossette sulle guance se rideva, facevano di lei la donna più attraente di Monteviale...I presagi facevano parte della sua vita fin dalla nascita.

... Gli anni passarono. Gli anni seguitarono a sciogliere le nevi, a far cadere i goccioloni sulle primavere, a falciare le erbe dell’estate. Un autunno il freddo si mise il cappotto ed era già guerra

... La casa era un groviglio di stanze, sistemate su tre piani, intervallati da un largo scalone in marmo rosa di Verona. La luce si spostava a seconda delle ore. La luce sentiva il freddo, il caldo, la cenere delle nubi.

...C’era un divano dai fiori gialli e porpora, si guadagna il ricordo perché nel vederlo gli occhi sorridevano.

...Ero legata alla madre come una goccia alla pioggia. Io e lei eravamo nate insieme. Insieme ridevamo e guardavamo il cielo.

Ho amato uno stile e un lessico molto particolari, originali; anche nella prosa non divergono dalla poesia, Annamaria Cielo ha fatto di Bruna, questa donna tenera ma decisa, un monumento e un modello a cui ispirarsi. Bruna che, dopo i quarant’anni incontra Rino, ricco vedovo con tre figli e di diciassette anni più vecchio di lei e s’innamora. S’innamora e lo sposa, segue il cuore, va contro il volere dei genitori.

Molto bella anche la figura di papà Rino, un uomo così eclettico ed entusiasta, un’esistenza tanto complessa e varia, un destino difficile, a volte crudele, ma pure straordinario.

Ho trovato una grande armonia tra la prima parte del libro, quella necessariamente fatta di ricostruzioni tramandate, e la seconda parte che riguarda la vita vissuta in prima persona dall’autrice. Non ci sono cesure, anzi riconosco quella presa d’atto, quel distacco aureo dagli eventi che, lungi dal dare giudizi su fatti e persone, invece tutto comprende in una logica provvidenziale di etica filosofica; la vita ne ha per tutti e ciascuno si trova necessariamente sotto i colpi di ciò che gli tocca. Anche la figura della cognata un po’ psicotica e chiamata sempre zia Isetta come fosse un solo nome, alla fine, con delicatezza, ma con gran decisione, è stata resa inoffensiva da parte di chi finalmente aveva compreso l’origine irrefrenabile e reale del suo “veleno”: l’innamoramento per il fratello Rino.

Il mio affetto per zia Isetta era sincero. Era come giocare con una bambina.

L’ultima volta che le venne il mal caduto era di sera, seduta in sala da pranzo, guardando la televisione. C’era la quarta puntata del teleromanzo “Canne al Vento” di Grazia Deledda, ambientato in Sardegna, un racconto sulla povertà, l’onore e la superstizione.

Penso che da questo libro ne verrebbe un bellissimo film.

Recensione
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