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In memoria di Gerardo Sangiorgio di Biancavilla

(Cancello ed Arnone di Caserta, 20 maggio 1921
– Biancavilla, 4 marzo 1993)

Rivolgo il mio affettuoso saluto a quanti sono qui convenuti per ricordare l’eclettica, straordinaria personalità di Gerardo Sangiorgio, lo faccio con cuore particolarmente commosso, per essere stata io stessa toccata, in una persona di famiglia a me strettamente legata, dalla drammatica vicenda cui si fa riferimento anche per il Nostro e che riguarda più di settecentomila militari italiani (ma le cifre non possono ancora, ad oggi, essere precise) disarmati, catturati e deportati nei territori del Terzo Reich dopo l’8 settembre 1943. Evento poi trasformatosi in tragedia per innumerevoli famiglie.

Solo in un primo momento essi furono considerati prigionieri di guerra, successivamente furono definiti “internati militari”, proprio per non riconoscere loro le garanzie della Convenzione di Ginevra.

Fra chi di quella tragedia e di tanta brutalità potè dare testimonianza, per essere tornato, e perché avvertì la responsabilità di farlo, con lucidità e con dovizia di precisi episodi riferiti e dettagli documentati, anche perché consapevole che di questa odissea si tende in generale a parlare troppo poco, certamente vi è Gerardo Sangiorgio.

Latore dell’onere e della necessità di questo mandato umano, lo si distingue in prima linea e si evincono, anche da come seppe condurre tutta la sua vita e da quanto si legge negli scritti che ha lasciato, la radicata solidità dei suoi valori e la nobiltà del suo animo.

Ciascun Paese ha il dovere di coltivare le proprie memorie, di non cancellare le tracce delle sofferenze patite dal proprio popolo, anche per continuare a far luce sulle cause e sulle responsabilità di quanto accaduto. Lo stesso Sangiorgio dice in una nota In margine a quanto scritto in “Prospettive” sulla Resistenza, facente parte della sua Testimonianza Memoria dei lager, Quando l’algente verno…: “Chissà perché la Resistenza degli Internati Militari Italiani (questo fu il termine da compromesso escogitato dall’accordo Hitler - Mussolini, termine eufemistico, che tra l’altro ci sbalzava fuori della protezione comune ai prigionieri di guerra di tutte le nazioni) nei Lager tedeschi, che, insieme con “l’olocausto” degli Ebrei, toccò il diapason di patimenti, nel diabolico perpetrato snaturamento dell’essere umano il motivo per cui il martirio di ben seicentomila soldati italiani, per vari lustri, è stato tenuto in ombra e solo da un po’ di anni a questa parte la più obiettiva e accreditata storiografia rende giustizia a quanti dopo il famoso 8 settembre 1943 diedero testimonianza, pur disarmati, di alto eroismo spirituale, negandosi alla collaborazione con i Tedeschi.”

Di fedeltà e di senso del dovere, a cui oggi si è poco educati, si dovrebbe, in verità, parlare di più, il ricordo di chi improntò a questi valori la sua esistenza, le sue scelte, e ogni azione, è prezioso ed è assolutamente indispensabile, affinché l’ignoranza e l’indifferenza non debbano mai prevalere.

Gerardo Sangiorgio si fece un dovere di combatterle, perché anche la sua testimonianza fosse un monito contro ogni offesa e persecuzione della dignità umana, questo sentiva forte, nei confronti dei sopravvissuti, ma anche per dare voce a chi non l’aveva più e dunque anche al mio caro, che non potei conoscere di persona, per questo, anche io, gli sono così grata.

E coltivare la memoria di personaggi come Gerardo Sangiorgio, ora mi rivolgo direttamente ai convenuti, ringraziandoli vivamente per la loro partecipazione e per il loro contributo personale, è fare tesoro di qualcosa che non è passato, non può esserlo, dato che il pensiero, la sensibilità, la dignità, il genio, i meriti e i pregi di chi ha saputo lasciare traccia di sé rimangono solo in questo modo al riparo dal delittto dell’oblio; salvarli dall’indifferenza è render loro giustizia.

Ragguardevoli di memoria ho trovato in particolare le parole che il Nostro scrisse in un articolo dal titolo Gabelli ha visto chiaro. Conservazione e innovazione fattori della Civiltà latina, apparso nel 1952 su La tecnica della scuola; ne posso riportare , per esigenza di brevità, solo qualche stralcio, tuttavia significativo: “In noi rivivono le conquiste di milioni e milioni di esseri pensanti e creatori, che ci hanno preceduto” … e ancora “la ripresa si annoda all'apogeo della precedente fase migliore.”, “la ragione sì, ma vivificata dal cuore… mira al miglioramento del singolo e della società”… “ad alleviare o stornare, i grandi mali”…“legando i fili del nuovo al vecchio”…

Trovo attualissime queste sue parole, utili in modo speciale nei frangenti che viviamo in questi giorni: “Conservare il buono di un ordine passato è necessario in tutte le crisi dell’umanità, per restaurare il crollato”…“è una riedificazione, che annulla l’ordine vecchio solo parzialmente, in quanto lo fa rivivere in ciò che ebbe di più vitale: su quella annosa quercia che è l’ossatura di ogni civile società l’uomo innesta, di volta in volta, di tempo in tempo, il virgulto del suo progresso”.

È un esempio, questo, di come gli uomini di valore non cessino di parlarci, nel momento del nostro bisogno, sia pure dopo anni dalla loro dipartita terrena.

Ho molta ammirazione anche per le pregevoli poesie che ho potuto leggere di Gerardo Sangiorgio, esse me lo rendono, se possibile, ancora più caro; le trovo dettate da una sensibilità fuori dal comune, certamente, ma anche provenienti da una vasta e radicata cultura, da eccellente profondità di pensiero e da una particolare attenzione alla musicalità dei versi.

Desidero sottolineare questi due, tratti da Un pezzo di pane calpestato, che riportano con parole semplici ma incisive al grigiore senza scampo dei giorni della prigionia: ‘quando alle albe non seguiva il sole / e i tramonti erano senza rosso di speranza.’

Nel testo A mia madre vivono per sempre tutte le madri in pena: “Ma te, rivedo là /”, scrive il Nostro, “sempre al tuo posto, / accorta a vigilare in orazione/ i passi battuti sul selciato, / in attesa perenne nella notte / del figlio che ultimo rincasa.”

E ancora penso a loro, e alla tenerezza infinita dei figli verso le proprie madri, quando Gerardo Sangiorgio suggerisce in Quando l’algente verno...: “Quando l’algente verno / i fiori guasterà del tuo giardino, / ora tanto soavi, /aliterò, frugando, sul più bello: / gli rifarò la vita / per offrirlo in dono”.

Infine, per concludere, vorrei citare quei versi, leggendo i quali ho provato quasi un colpo allo stomaco, perché descrivono in modo straziante il ritorno di chi, pure sopravvissuto, tragicamente, irrimediabilmente, non ritrova più nulla della felicità passata: gli stessi luoghi non paiono più gli stessi e neppure le persone, con le quali si avverte l’impossibilità di condividere qualcosa che forse impropriamente, insufficientemente chiamiamo trauma, dato che certe cicatrici non solo restano indelebili, ma cambiano anche, in modo irreparabile, tutto il nostro mondo; è l’icastica, inequivocabile, angosciosa chiusa che si legge in Altri ci subentrano: “Ma visi nuovi, tutti nuovi, / e quanti!, mi sfilano innanzi! / Stranito guardo: / son fuori del tempo, / o qualcosa di me manca? / Perché intruso mi trovo / nel luogo che amo e con affetto mi stringe?”

Molte grazie e un ideale ma sentito abbraccio a tutti Voi

Messaggio di saluto di Lucia Gaddo Zanovello letto in apertura al Convegno in memoria di Gerardo Sangiorgio, poeta pacifista e antifascista scampato ai lager nazisti, tenutosi nell’Aula Magna dell’I.T.S. P. Branchina di Adrano (Catania) il 27 Gennaio 2015.

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