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Le bambine di Carroll
Il sogno di orez
Nella nuova opera poetica di Bonifacio Vincenzi, Le bambine di Carroll, sono numerosi i versi che trovo memorabili. Questo perché
essi sono suggestivi di riflessioni utili a soffermarsi ancora una volta
sulle questioni fondamentali dei processi d’identificazione e di
riconoscimento di sé e degli altri, sul fine ultimo dell’esistere e sulle
inquietanti domande da porre al mistero della vita e della morte.
È proprio il testo di apertura ad apparire quasi programmatico: “Nessuno
sceglie la salita”, già questo titolo dichiara lo sforzo immane ma
necessario, richiesto a ciascuno per esistere, e nel secondo testo: “Credimi
quando ti parlo”, ove si dice “il primo pianto nel mondo / non lo dimentica
nessuno”, vi è tutto il dramma della solitudine e dell’isolamento traumatico
che vive il neo-nato all’umanità.
Nella raccolta ricorre più volte, insieme a quello dell’apparenza, il tema
dell’assenza, “Siamo qui nel tuo sangue, / gridano gli assenti” (“Nei secoli
dei secoli”, p. 34), ma questi ‘diversi’ assenti, così ‘vivacemente’
operosi, io credo di individuarli in coloro i quali ci hanno preceduto, essi
sono dunque al contrario, presenti, per il fatto che li portiamo con noi nel
nostro DNA e nel nostro sangue, anzi essi si trovano addirittura ‘a gridare’
in noi la loro presenza, perché desiderosi di proseguire, attraverso noi,
con la stessa passione che li aveva animati o con quella che non avevano
saputo o potuto esprimere durante la loro esistenza, sulla strada
dell’amore.
Per esistere in autentica presenza dobbiamo mantenere la guardia, avverte
infatti B. Vincenzi in “Nei secoli dei secoli” e in “Pane di sole”, dato
che il nostro procedere tende a farsi troppo spesso, per pigrizia,
stanchezza o per insensibilità, “un camminare di assenti”.
Nel precipizio della vita e per essa, afferma il Poeta, “Siamo la corsa che
ci rende / ciechi” e nella corsa poi “chi distingue più / il durevole dal
passeggero”, talora è difficile riconoscere il vero dal falso, vedere con
chiarezza ciò che è realmente importante, ma è in questa asserzione: “lo
chiedo a te che sei me”, che si legge nella prima poesia e in questo
passaggio della seconda (“Credimi quando ti parlo”): “lasciami essere ciò
che non vuoi che sia”, che vengono offerte al lettore, per l’appunto,
indimenticabili meraviglie, in sintesi, lucide perle da conservare nel
cassetto delle necessità.
Il trasporto emotivo verso l’altro e verso il mondo, si comprende, è
l’unica via di accesso possibile per la nostra presenza reale, l’unico varco
al muro della solitudine, rimedio all’egoistica retrocessione di sé, unico
contrasto alla morte e suo contravveleno.
Il nostro processo di riconoscimento inizia solo quando ci riconosciamo
nell’altro e nella nostra appartenenza al mondo, “attenti alle bambine di Carrol
/: Portano sempre / di là dello specchio” (p. 21), avverte l’Autore con
una messa in guardia che in realtà è un invito.
Lo specchio dà di noi un’immagine falsata, e si legge ancora in “Pane di
sole”, “lo spettacolo di sé / rimane in sospeso”.
Se mi fermo a guardarmi, in altre parole, non imparo nulla di me, anzi, c’è
forte il rischio che il rimando narcisistico congeli il mio evolvere;
davanti allo specchio osservo un’immagine solitaria e priva di spessore.
Capita di frequente che chi non ci vede da tempo stenti a riconoscerci, se a
noi a volte questo dispiace, è perché sentiamo forte che in realtà siamo
fatti dello spirito eterno che ci caratterizza e che rimane in sé di una
intatta freschezza immutabile, è soltanto la nostra transitoria corporeità a
trasformarsi di continuo, nelle età e per gli eventi che incontra.
L’identità è un processo di consapevolezza di sé che sta al di là delle
apparenze, che mette l’anima in continuo e profondo mutamento solo in
rapporto ai propri simili, anzi, soprattutto in rapporto ai propri
dissimili.
Per questo sarebbe un errore ‘fidarsi’ delle immagini riflesse dagli specchi
ed è necessario invece fare il balzo di Alice per stabilire delle relazioni.
Si deve fare il contrario di ciò che appare ragionevole perché l’apparenza è
ingannevole, bisogna andare oltre, verso l’altro, che è la salvezza della
nostra identità, come noi lo siamo della sua, e lo si deve fare senza paura.
Proprio perché “Ha leggi feroci il tempo / e noi andiamo, incatenati / alla
nostra assenza” (p.36), sostiene Bonifacio Vincenzi, tornando sul tema sopra
ricordato del pericolo di passare dal mondo da assenti, la partecipazione
emotiva e l’amore sono l’unico modo per essere liberi e presenti al mondo e
per rendere liberi e presenti gli altri e solo uno specchio che rifletta un
interiore me migliore è quello che riflette anche un mondo più accettabile.
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Recensione |
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