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da Per Cesare Ruffato Testimonianze critiche, Marsilio, Venezia 2005

L’epico innesto etico nell’etimo di Cesare Ruffato

Cesare Ruffato profonde la sua esistenza senza risparmio; essa è tesa costantemente all’eccellenza e lo scienziato e il letterato operano in sinergia, non ci sono distanze di cura o di soccorso, non c’è una inquietudine diversa nei confronti della comune umana sofferenza, non distinzione fra malattia e falsità ideologica nei confronti delle quali il Nostro ha un atteggiamento di censura grave.

Uno stile di vita che definire sobrio sarebbe riduttivo, una scrittura, invece, ricchissima, a volte esondante, ma esemplare, in fatto di rigore: nessun orpello, una politezza “asettica”, di invenzioni lessicali multiformi, plurilingue, non escluso l’amatissimo e veritiero volgare materno insostituibile per singolarità espressiva. Il tutto con intervento preciso di sapienza e di sentire, ma scientifico, chirurgico. Coerenza di ricerca, coesione tematica nel tempo fedelissima a se stessa, coraggio pulsante, passione globale per la lingua e per le lingue: lo studium continuo, attento, curioso, di antica memoria. Ma compassione solo per l’innocenza: per i bambini, in primis, per quelli mal-de-nutriti del Mondo, e si intende non solo quelli del “Terzo”, affamati nel senso proprio del termine, ma non meno anche per quelli “offesi”nel Primo e nel Secondo Mondo, a causa dell’adulto corrotto, o di quello inetto alla trasmissione dei valori veri, che dis-educa, con nutrimento etico scarso, scadente o nullo il tesoro unico e prezioso delle nuove generazioni.

Partecipazione, poi, a tutto il dolore umano, specie se ingiusto o da ingiustizia. Ma alla meschinità o alla pusillanimità dei miserabili avari di cuore e di passione, d’indagine, di riflessione, di impegno, di cura del proprio lavoro, quale esso sia, egli riserva solo severità: “Parole dal dispendio svanite | a rifocillarsi e a tubare | tortore e colombe di pace | gargarismando ugole nicotinose | aspidi da sottobosco marcito” (Sinopsìe, Marsilio, 2002, p.10).

Mai viene trattata, invece, ad alta voce, bensì con pudore estremo, la materia dell’angoscia privata, pure acutissima, a tratti insopportabile, che non gli è stata risparmiata a nessun grado e a nessun livello: “Ultima luna magnolia | niveocerea assaporata insieme | tu alba centro vitale…” (ivi, p.41).

Stessa severità, dunque, per la passione medica e per quella poetica; allora non c’è da stupire se lo stile del rigore possa farsi, a tratti, rigorismo, persino inclemenza, tenuto tuttavia sui toni di una sottilissima ironia: “Infabularsi licantropo in sonno | profondo in notte di plenilunio | di mezza estate e fugare il timore | intimo con apotropaici ùluli | al precario orizzonte.” (ivi, p.38) o: “…ritengo il mio software non di serie…” (ivi, p.56). Ma se a provocare sono la falsità, l’ipocrisia, la faciloneria, se lo sfidano e lo offendono il cattivo gusto e la vuota presunzione, che sono sempre gratuiti, ignobili e deprimenti: “maree testuali | talpose con biografie straripanti | di quisquiglie onorificenti. | Valangato da tanta esibita | inanità guardo attorno..”(ivi, p.7), allora egli risponde con inflessibile durezza; perché nulla di lezioso, artificioso, di aberrante, scorretto o infondato gli può sopravvivere. Mite non è stato mai e non può esserlo, tanto meno con se stesso. Ed è una scomoda creatura l’intollerante dell’imbecillità, del banale, dell’approssimazione, ma la vita è affar serio e non ammette repliche. Ha ritorni esatti. Perciò la censura è severa, totalizzante, a tutto raggio, assoluta.

Nulla di comodo, di facile, di agevole o illusorio, nei fatti e nella scrittura; solo un lavoro di lama tagliente e di lima paziente, sui versi, quelli suoi e, per congruenza ed onestà, su quelli degli altri. Giudice severo, ma della sua lunga esperienza, e soprattutto della sua sincerità, ci si può fidare e risulta esteticamente appagante, affidarsi fino in fondo al magmatico torrente di parole della sua numerosissima produzione poetica, che fluisce attraverso lui da risorgiva di passione pura e ipersensibilità connaturata. È viaggio che apre ad orizzonti sorprendenti lasciarsi scivolare nel mare in tempesta delle sue inquietudini, precipitare nella ribollente, ininterrotta cateratta di neo-etimi, metagrammi, eterocliti, onomatopee, miniature da reperto archeologico rivisitate, riviventi. Un trionfo di conî linguistici – che fugge lo spettro ricorrente del “senza nome” – che ha spesso il tono aspro della fermezza e quello fustigante dell’inclemenza o quello malinconicamente divertente, purificante, ma in ogni caso chiarificatore, che “sfanta” gli orpelli e le mistificazioni del nostro tempo.

Più raramente, eppure, inaspettatamente, accade, ci si può anche acquietare, beandosi dell’idillio perfetto di un raggiunto Eden di pace con sé, con la Natura, con il Dolore: “…Concludersi in chiarità diurna | quando l’estate illimite | si disperde nel radioso cellulio | aereo e si abbacina di tramonti | avvolgenti. Quando la natura | è rosa universale di vita | gioca a dadi e sfida la morte..prodiga di profumo di rose | e petali verbali che rosano | il simbolo edenico del fiore | noumeno spinoso del silenzio.” (Elegia della rosa, pp.86-92, in Så långt ögat når, Zindermans, Uddevalla, 2003).

Non so se qualcuno abbia cominciato a pensare ad una catalogazione delle invenzioni linguistiche del Nostro, molte sono le novità assolute e geniali originate dalla convivenza-connubio fra l’eterno puer, e lo scienziato: il primo in cui le aspettazioni e le utopie sono ancora vivide nell’insistenza a voler cambiare il corso delle cose umane con la linfa della purezza e, se necessario, con la ribellione dello scherno, dove il Nostro usa l’idioma materno, quando non vi è modo di dire altrimenti e meglio; il secondo, e non solo il medico, ma anche il filologo, lo storico, il ricercatore, il coriaceo fustigatore civile, iper-recettivo per natura, il quale, con l’idioma alloglotta antico e moderno plurimo, piegato alla fiamma della passione di dire l’indicibile, fa uso, a nervo scoperto, pure di una smisurata, inaspettata delicatezza, non di rado di tenerezza.

La corda dell’impegno civile è tenuta costantemente tesa, sui toni dell’indignazione, specie per la sofferenza causata da umana incuria, come già detto, e dalle guerre, il cui dramma storico resta imperdonabile.

Di Dolore è intriso e tramato l’innamorato esistere dei forti, per potere ricreare vita con l’arte per gli altri, per tutti, per sempre. Non solo per “l’intimo fiore” personale da abbeverare: “Coglieremo sulle rive i ciclamini | e i rari io delle nobili viole” (Sinopsìe, cit., p.12) ma come sempre avviene nei grandi, per ristabilire la sacralità e la responsabilità di ogni vita umana. Perciò una lingua non basta, per questo il pensiero ispirato del Nostro diventa “possessione” diacronica e sincronica di lemmi, dal greco e latino antico al moderno parlato delle lingue del mondo “vita non vita morte ricreazione | in fiat lux e vox di logos” (ivi, p.13) e “la tua naïve aracnodattilia per tratti virtuosi” e ”microdecessi di assenza” (p.14), mai tuttavia scordando l’dioma iniziatore, primiero, materno della verità-amore, che sta innanzi a tutte: “…la semplice estetica della naïvità…E così elucubrando sempre più | crocifisso doloroso in lacrimarum | valle dai suoni vocaboli e norme | estenuati mi sbuccio e m’immio…” (ivi, p 78), e: “Scomparsa la casa della maestra | mia madre e dei miei natali | spianati…Ogni tanto ricerco per divario | qualche vocabolo e volto vernacoli | dell’idioma materno primo alimento | bioritmico e fonte di gioia e libertà..”(ivi, p.87).

Recensione
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