| |
Prefazione a
Il viaggio
di Tita Paternostro
la
Scheda del
libro

Lucia Gaddo Zanovello
Quest’ultima opera in versi di Tita
Paternostro, Il viaggio, si innesta nel volume in prosa Fili
di memorie sospese, stampato nel gennaio 2002 a cura del Comune di
Serravalle Pistoiese rinnovandone l’emozione, estendendone i già ricchissimi
contenuti, schiudendo varchi nuovi attraverso altre percezioni di acuta
sensibilità. Entrambi i testi, ciascuno nel modo che gli è peculiare, ricordano
in maniera diversa e scorrono come paralleli fiumi intersecandone talora i rami;
ricostruiscono quel lungo percorso di memorie, scaturite dalla magia di una
splendida foto, scattata all’epoca dei primi segreti incontri fra Tita Santoro
ed Enzo Paternostro a Caltanisetta, che era stata tra i motivi dell’iniziale
contrarietà della famiglia di lei al loro legame. Nell’istantanea i due giovani
posti uno dietro l’altra, sono ritratti “a mezzo busto” e vi appaiono felici;
negli sguardi, una consapevolezza fiera del loro grande amore.
Tuttavia, prima di iniziare un discorso più diffuso su
Il viaggio, per far piena luce sul suo motivo ispiratore, si rende
necessario qualche cenno ai fondamentali nuclei di passaggio che hanno condotto
a quest’opera, vale a dire che devono essere qui ricordate anche le tre
pubblicazioni in versi dell’autrice che la precedono, suggerite dallo stesso
forte legame vissuto dall’appassionata risoluta coppia:
All’ombra del sole greco, del marzo 1997,
stampata da “La Tipografia Pesciatina”, celebra gli intensi cinquant’anni
d’amore con Enzo (e lui, ricorda Tita, partecipò con profonda commozione alla
cerimonia pubblica di presentazione di questa silloge); successivamente, nel
poemetto Amanti, uscito per le edizioni de “Il Galeone”, di San
Marino di Carpi (Modena), del novembre 2003, accanto al rammentare di lei,
rivive il rievocare di “lui”, con una forza di immedesimazione tale, da parte di
Tita, che viene spontaneo per il lettore scordare che il dialogo d’amore sia
espresso per intero dalla sola voce femminile (vi appare chiaro che soltanto un
sentimento senza confini e senza tempo può averlo dettato); nel quaderno in
versi Epitome, infine, del maggio 2007, edito per
cura della stessa Casa Editrice, l’autrice presta integralmente la sua voce allo
scomparso, dando vita, a distanza di molti decenni, ai ricordi nitidi e
palpitanti di Enzo; qui la poetessa, che in Fili di memorie sospese
già aveva dichiarato quanto profondamente la commuovessero le confidenze del suo
uomo sul proprio innamoramento, riesce in una operazione davvero singolare, e
attualizza attraverso il sorprendente intarsio di voci che emergono dalla sua
memoria, il canto di Enzo, che celebra la nascita dell’amore per Tita nel 1947 e
ne discorre fino al 1961 (in quell’anno egli terminava l’Accademia e diveniva
ufficiale di polizia, iniziando la sua luminosa carriera), nei versi conclusivi
di questo poemetto egli si dichiara certo che abbiano finalmente termine le loro
dolorose separazioni e assicura: “È finita, è finita. È finita! / Ho dato una
svolta alla mia vita. / Ora sarai sempre accanto a me / nella buona e cattiva
sorte. / Niente e nessuno più ci dividerà. / Ci saranno traslochi / ma per te
imballerò anche la luna”.
Tutte le opere fin qui ricordate, dunque, nascono
dall’ininterrotta storia d’amore fra Tita ed Enzo, ma tornando ora a quelle che
manifestano particolare analogia fra loro, Fili di memorie sospese
e Il viaggio, quest’ultimo testo in versi, come dicevo all’inizio,
va a perfezionare in mirabile summa e ad acuirla, la percezione del vissuto di
questa coppia felice, che pure molto ha sofferto, già contenuto nel testo in
prosa, dove il lettore viene messo a parte di una avventura avvincente e
toccante insieme, narrata con dovizia di particolari di interesse ragguardevole.
Ne Il viaggio si può dire altresì che egli più integralmente
riceva intatta, soprattutto nelle emozioni, un’esperienza così totalizzante, che
essa diviene indispensabile alla sua propria comprensione dell’amore, tanto da
essere indotto a non volersene staccare. Per entrambe le opere si conferma
inoltre una lettura molto piacevole e coinvolgente, perché agile, varia ed
articolata, in cui, non vengono trascurati alcuni opportuni, luminosi flash-back
con incursioni di Tita nei fasti dell’era fascista, così poco graditi da lei
bambina o nell’irripetibile autenticità della vita agreste nell’isola, all’epoca
della mezzadria. Frequentissimi e splendidi, si aprono scorci siculi sulla
natura incontaminata dei luoghi e sul mare, vedute sulle città, sui paesi,
scenari sui resti archeologici di quella meravigliosa nostra regione,
irrimediabilmente alterati, ieri dallo sfruttamento delle miniere di zolfo, oggi
dall’affastellarsi incontrollato dell’edilizia moderna. Così parla Tita della
sua isola rivisitata dopo esserne stata lontana per decenni: “Il potere
omologante trionfa / gusti abitudini pratici mentali / dalla lettura
all’abbigliamento / all’impiego del tempo libero / si schiaccia la società
contadina / culture fisionomie locali /comportamenti tradizioni valori. / Si
impongono anche nei più sperduti / villaggi modelli di lingua / miti umani
bisogni./ Tutto viene frantumato./ Tutto viene offerto alla logica del
profitto”.
Fin da subito protagonista è la Storia, perché i ricordi
della cultura nazionale, delle mode e le pennellate di memorie visive
dell’autrice, si intrecciano alla vita quotidiana italiana, delineando
praticamente la sintesi di un intero secolo.
E non deve essere scambiata per compiacimento quella
puntualità narrativa, nelle meticolose, attente descrizioni della propria
persona, degli ornamenti e della magnificenza del mondo vivace e vistoso
dell’alta società, infatti ben presto chi legge vi riconosce il rispetto di una
profonda coscienza di sé, della dignità dei protagonisti e di un’alta fedeltà a
una realtà oggettiva effettivamente vissuta tal quale viene rappresentata.
Nonostante la lunga frequentazione di quelle appariscenti consuetudini in voga,
i modi di riferirne si mantengono entusiastici e puri, genuini fino all’ultimo,
senza manifestare alcuna assuefazione da parte di lei, anzi, ponendo rilievo a
una non comune consapevolezza, grata di un grande dono ricevuto.
Leggere questo libro può essere molto gratificante non
solo per chi ama la poesia, ma anche per chi ha vissuto quegli stessi anni, in
quegli stessi luoghi, o per chi, avendo conosciuto certi eventi solo dalle
pagine dei libri di storia, non può che averne una visione distaccata e per
nulla emotiva.
L’inizio de Il viaggio è folgorante,
enunciato al presente, con la nascita di Tita, ultima di tre figli, fin da
piccolissima già obbligata dalla professione del padre, ispettore di Polizia, a
viaggiare il mondo (è l’esordio dei lunghi tragitti nella “Casa di ferro”, così
lei bambina definiva d’abitudine il treno). Come in un flusso di memoria che
procede per associazioni libere, usando una scrittura fluida, che affida le
pause (a parte i punti fermi) alla mera scansione del verso, per poi lasciare
spazio a brevi parentesi esplicative, passando ad un intercalare al passato
imperfetto, remoto o prossimo, Tita asseconda la densità e il carico di ciò che
vuole dire: come avviene per il ricordo dell’evento drammatico, fortemente
traumatico per tutta la famiglia, della caduta accidentale occorsa
all’amatissimo fratello Rocco, con la sua conseguente tragica morte prematura,
che getta nella depressione la madre; o rammentando la permanenza della famiglia
a Pola, in Istria, proprio quando la bimba inizia la scuola elementare, e si
vede “costretta”, suo malgrado, “tra le bande bianche / strette dalla M di
metallo”, quando “persino gli studi erano guidati / dalla luce del Duce”; o per
gli appunti di guerra, con sfollamenti e distruzioni durante l’adolescenza e gli
studi; per la casa di famiglia semidistrutta dai bombardamenti; per la corte
serrata alla splendida giovinetta ritrosa, felice solo quando poteva calcare le
scene di un palcoscenico di un convento di suore, richiestissima per diverse
rappresentazioni teatrali e per i cuori infranti lasciati in quell’età; come
anche rievocando la nascita della Repubblica, fino a quel fatidico 29 settembre
1947, quando Tita in chiesa, avverte su di sé gli sguardi di Enzo e la sua vita
cambia definitivamente. Prendendo le mosse da una favola, lo diviene davvero per
lunghi tratti.
L’incontro delle due giovani esistenze si rivelerà
davvero fatidico, l’agognata vita a due, da veri amanti, scorrerà accanto a
percorsi professionali analogamente brillanti per entrambi. E questo avverrà non
soltanto perché i casi della vicenda umana dei protagonisti hanno offerto loro
doni miracolosi, ma soprattutto perché il valore autentico del loro essere e dei
loro sentimenti ha fatto sì che ciò si realizzasse. Di frequente l’ardore che li
animava, e che da essi traspariva, catalizzava sulla coppia, insieme
all’ammirazione di coloro che li incontravano, esperienze e momenti fuori dal
comune. Ma anche piccoli episodi della quotidianità, eventi e situazioni che in
fondo accadono a molti nel corso della vita, vengono in qualche modo esaltati
dallo spirito di Tita, che tutto vive e accoglie con lo stupore, l’attenzione,
la profondità di una creatura cui è connaturata la piena consapevolezza
dell’eccezionalità di ogni attimo che la vita offre. Ella conserva comunque
l’entusiasmo di una fanciulla.
Dalla Pasqua dell’anno successivo, nel ’48, i due
giovani prendono coscienza della profondità del loro amore, che viene ostacolato
da diverse persone per diversi motivi…Gli studi di Tita, che deve sostenere gli
esami di abilitazione magistrale, favoriscono qualche sorvegliato incontro in
casa di lei con Enzo, al quale tuttavia non viene concessa l’autorizzazione di
uscire con la giovane e tantomeno di fidanzarsi con lei, ma solo quella di
affiancarla nella preparazione delle materie scientifiche. Terminati felicemente
gli studi, cessa inevitabilmente la possibilità di vedersi e gli innamorati
conoscono la disperazione, lui arriva a meditare propositi suicidi, finché, non
ultime per ragioni di sfinimento e di salute di Tita, la famiglia di lei cede e
i due possono ufficialmente frequentarsi. Nel frattempo ha inizio la veloce
carriera del giovane, naturalmente a prezzo di lunghi sacrifici e di tristi
lontananze da casa. Si giunge finalmente alla mattina del 3 luglio 1952, quando
il loro sogno d’amore viene finalmente coronato e: “Ci sarà davvero un domani? /
Potranno ancora le nostre labbra / staccarsi per parlare?”, si chiedono al colmo
della gioia gli sposi novelli, ma qui lasciamo al lettore la rievocazione di
quei momenti e di quei giorni memorabili, sapientemente trasferita nei versi
luminosi di Tita. Nell’estasi di eros e di agape fusi in perfetta intesa, ha
inizio il lungo mese di luna di miele, in cui vengono gettate le basi di una
complicità assoluta che li acccompagnerà per sempre. La vita coniugale vera e
propria si avvia nell’appartamento approntato a Caltanisetta nello stesso
stabile della famiglia di lei; dopo poco, ecco le “Ferie di Settembre a
Mondello”: “Sdraiati sulla calda sabbia / la Notte incombe sui nostri corpi. /
Nel mantello blu brillano lapislazzuli / una leggera brezza muove le palme /
questa non è solo felicità / è bellezza / il mare e il cielo nelle labbra
inaridite / nei gemiti inarticolati dei corpi. / Attenta è la notte delle stelle
cadenti / la luce abbaglia il resto / è realtà atemporale”.
Ancora lunghi momenti di addio, sofferti periodi di
lontananza, le prime separazioni per la carriera di lui e per l’insegnamento di
lei, in un’altalena di distacchi e di incontri, di sofferenza e di esaltazione,
che proseguirà fino a che la coppia non si stabilirà definitivamente a Pistoia,
nel 1973. Qualche esempio per tutti: nei primi anni ’50, “…domani il treno
ti riporterà in viaggio / dormi con la mia mano / stretta al tuo petto / domani
avanzerà il deserto / domani crescerà la mia solitudine / in trame di
nebbia”…”Io ti cerco nel vento / che frantuma lo zolfo / nel volto dei minatori.
/Io ti cerco in quelle case / dai muri sgretolati”; dopo otto mesi di assenza
del marito, in Sardegna per una situazione di emergenza legata al banditismo
sardo: “Tu piangi ti disperi / io non riesco ad essere /s’è spento il fuoco nel
gelo dell’estate” e come due amanti, finalmente insieme per una breve vacanza
nella Roma barocca:“Oggi i miei giorni / meritano / di essere vissuti”.
Il 1961, come già ricordato, segna una tappa
fondamentale per la giovanissima famiglia Paternostro: Enzo diviene Ufficiale di
Polizia e nel ’62 ha luogo il trasloco a Catania, primo di altri numerosi che si
sgraneranno nell’arco di un trentennio. Il momento dell’addio definitivo
all’amata terra di Sicilia, avviene nel primo autunno del ‘68, ma “per stare per
sempre insieme”, si dicono illudendosi gli sposi, dato che nella realtà, la
famiglia dovrà sostenere molte altre dolorose prolungate o brevi separazioni:
“Si avvicendano le stagioni / cieli plumbei a palpiti azzurri / intrecciati dal
trillo dei passeri / ciarlieri di giorno / silenziosi nella notte. /
Nell’incerta ora della sera / un addio ai morti /resta appeso / al grande
cancello nero”. È a questo punto che Tita si sente: “Donna-polena pronta a
solcare i mari / il corpo proteso verso l’ignoto./ L’odore mediterraneo dei miti
/ spinge il grande flusso della vita /” e, felice, dichiara: “Sarò ninfa che
fugge e si ritrae / per poi mostrarmi al lume lunare. / ..mi spoglio del
prezioso tessuto / ritrovo la fame la sete / sul tuo corpo nudo”. Ma poi ancora
distacchi a causa dell’insegnamento: “’72 (primo semestre) “ti aspetterò ogni
venerdì sera /all’uscita della scuola./ Tornerai lunedì mattina, ti sta bene?/
Soffocata dall’emozione avrei voluto dire / “vorrei legarti ai miei capelli /
nell’oro del mio sentire / perché ti amo da perdermi”/ …Chi non prova il dolore
del distacco / non potrà mai dire / cos’è la felicità”. Più avanti versi di rara
bellezza: “…Il lido si spopola / una luna incendiata / si posa sull’acqua”. E,
finalmente, in quella che sembra essere l’ultima attesa: “…a Roma per l’ultima
volta: / guardo l’orologio / sembra fermo / e ancora non sento i tuoi passi. /
Gli occhi prigionieri della porta / mi alzo sistemo meglio i fiori / profumati
per darti narcosi”.
E invece, di nuovo: “Genova-Pistoia ’73 / So che un dio
implacabile / ci dividerà ancora / due mani si protendono / poi il silenzio
s’attarda / sul letto disfatto./ Noi due portiamo il fuoco / del Gorgoneion /
testa della Triscele / dea terribile dalle tre gambe / il movimento cosmico / la
vita il divenire. / La nostra sosta attuale / è nel paese dove il grigio delle
nebbie / si fonde nella luce del riverbero / delle colline circostanti”. Pure,
Tita dirà, in occasione di uno dei tanti trasferimenti: “…si rinnova il
sentimento del vivere. / Mi succede quando cambio sede”. È evidente fino a che
punto l’ottimismo e l’entusiasmo in lei siano connaturati. Una riflessione a
parte meritano alcune documentazioni sulle numerose esperienze d’insegnamento di
Tita, in particolare le sedi di cattedra iniziali: ecco la testimonianza del
primo: “Anno scolastico 1954-’55 : Scuola Popolare a Calderaro. / Fine
settimana in campagna / tu porti la borsa carica di viveri /andiamo a piedi per
tre chilometri./ …Il garage sarà l’aula / l’arredo sarà improvvisato / il mio
entusiasmo alle stelle” e quella dell’anno scolastico 56-57, il primo incarico
annuale, dopo l’abilitazione all’insegnamento conseguita brillantemente anche
dal marito Enzo, dopo essersi preparata con lui: “Troneggia la scuola su nove
stalle / i gemiti bovini si uniscono / alle canne dei flauti / oscuri
dell’autunno; /nei boschi vicini /c’è freschezza di luna”. Ma indimenticabili
risuonano i versi che ricordano con commozione la scuola sussidiaria presso la
miniera di zolfo del barone Trabonella, nell’anno scolastico 1958-’59: “La
corriera imboccava la trazzera / lì finiva il mondo…/ Accompagnati dalla Morte /
che sniffava grisou / i minatori scendevano nei / profondi pozzi / si
confondevano nel buio./ A mezzogiorno seduti per terra / mangiavano stanchi
/sporchi affamati / il sudore scendeva a rivoli sulle fronti./ Uomini impastati
di pane zolfo acqua”... “Spesso desiderosi di sole / tradivamo i banchi /
rosicchiati dai topi incisi da temperini / gesti risalenti all’Ottocento./ E la
lezione continuava all’aperto”... “aspetto il segnale per riprendere la lezione
/ specchiarmi negli occhi dei bimbi / camminare con loro / nei sentieri della
conoscenza / costeggiati da erbe ingiallite atrofizzate / dove gli uccelli
spersi cercano / vermi disperatamente./ Ci fermiamo sotto il mandorlo / mette
fiori piccoli bianchi e rosa / non arrivano a chiudersi in frutti / la polvere
sulfurea dilania l’aria torbida”. Questi versi brevi, ma sapientemente
incisivi, dichiarano le disumane condizioni di lavoro dei “carusi”, il dolore di
una natura ammorbata, che non può dar frutto e celebrano l’unico sollievo a
tanta desolazione: tutto intorno, intenti ai loro giochi, incuranti dei disagi,
i bimbi, che sanno spargere speranza dai loro sguardi innocenti.
Moltissimi sono gli splendidi scorci panoramici che si
incontrano tra questi versi, da cui traspare tutto l’amore che la poetessa nutre
per la sua terra italica, dalla Sicilia alle Dolomiti:
“Dalla punta della trazzera / s’intravede la cima /
argentea dell’eucaliptus” … ”greca islamica bizantina normanna / incarnate nel
Duomo di Monreale / esperienza incantevole / rievoca i fasti di un glorioso
passato./ Vecchia Panormus / Vecchia capitale del mondo / col tuo viso
sfolgorante / di maschera d’intrigo / di stupore di teatro / ti apri ti ergi /
nella distesa verso il mare”.
Sulle Dolomiti, nel ’77, per festeggiare le nozze
d’argento, nel crescendo di un ricordo, lo scroscio spettacolare di una cascata:
”Sul limitare di un bosco / esotico inquietante / un lontano brontolio / un
lieve sussurro / una intensa vibrazione / un frastuono un rombo / una morbosa
stregata scena / uno strepito infernale./ Masse d’acqua / cadono a piombo / da
un’altezza inaudita / l’acqua rimbalza sulle rocce / con rumori assordanti /
pare di udire minacce / voci umane brutali./ Guardo nel gorgo / le mani avvinte
alle tue / il terrore nelle pupille / inghiottite dal frastuono./ Sensazioni
forti irripetibili”.
La memoria delle quiete serate nella prima grande casa
acquistata per la famiglia a Colle, nei pressi di Pistoia si fa struggente: “La
sera si sta allungati / sulle sedie a sdraio / gli occhi fissi al cielo stellato
/ dove la potente vita notturna / risuona palpita./ Fremono le foglie glassate /
dal chiarore lunare./ Si nascondono gli uccelli / spaventati dal rapace./ Coro
di rane nell’erba umida / sbattono ali gli insetti / contro il lume bianco /
all’angolo del terrazzo”.
Nel 1989 si spalanca improvvisa una finestra sul Canal
Grande, a Venezia: “Sul vassoio la tazza di caffè con panna / chiasso in diverse
cadenze di linguaggio / italiane straniere / le gutturali tedesche / le
crepitanti francesi / le risonanti fiamminghe./ Sul campanile voglio saggiare il
vento / l’ombra la velocità./ Vedo una respirante creazione / grandiosamente
armoniosa / cosciente di sé fino alla follia”.
Il percorso rievocativo, dopo l’11 settembre 2001,
diviene inquietante quando, ricordando un viaggio negli Stati Uniti
nell’agosto-settembre ‘72, si fa tappa a New York e si rivivono immagini perdute
per sempre: “…Ancora più stordita al ristorante / sul terrazzo di una delle
gareggianti / torri gemelle con il Building”.
Dopo lo stabilirsi della famiglia in terra pistoiese, ha
inizio l’attività letteraria vera e propria di Tita, questa è varia e articolata
negli àmbiti della prosa, della poesia, della ricerca geografica, storica,
pedagogico-didattica, e si intensifica negli ultimi anni. Il notevole successo
di critica la porta ancora una volta in giro per l’Italia per grandi, meritate
soddisfazioni.
“Il viaggio” in versi di Tita Paternostro si conclude
con due splendidi cammei indirizzati alle nipoti, una sorta di passaggio del
testimone che possa fungere loro da viatico. A Giulia: “Voglio che le mie parole
/ non vengano a marcire / fra le foglie dell’autunno / il dopo deve essere gioia
/ un sole intramontabile./ Ascolta le mie parole / tienile strette sul cuore./
Amo tanto il tuo volto perfetto / il tuo sguardo incantato / che sa essere di
ghiaccio / ma nasconde inestimabili tesori./ Sono la nonna che ha viaggiato /
che ha visto mutare il mondo / che ha consacrato la memoria / ha congiunto il
buio con la luce / a te mi affido per non morire / a te confido i miei sogni /
alla ricerca di un piccolo approdo”. E alla nipote Chiara adolescente: “La vera
vita spesso / è lacerata da un complesso / di contrari inesorabili /giorno-notte
/ nascita –morte / felicità-sventura / anima- corpo / bene- male./ Ci saranno
ostacoli frapposti / nel passaggio / dall’adolescenza /alla maturità./ Bisogna
lottare / per conseguire obiettivi / superiori a quelli comuni./ Gli eroi
combattono / contro mostri / per salvare fanciulle in pericolo / oppure si
uccide il Minotauro / per salvare una civiltà”.
Al termine della lettura, malvolentieri ci si stacca da
questo libro, è un mondo divenuto caro e spesso si è portati a riscorrere le sue
pagine. Il motivo principale è la percezione chiara che le registrazioni di Tita
sono assolutamente veritiere. La sua scrittura puntuale è ricca ma scevra da
ogni orpello letterario o da qualsivoglia artificio volto di proposito a
stupire, ha il candore e la freschezza di un riferire umanissimo e colloquiale.
La poetessa sa far risalire alla memoria in modo visivo, trasfondendovi pure la
peculiare atmosfera di ciascuna, l’evocazione delle diverse circostanze, delle
occasioni vissute, mai perdute.
Ma se è giusto riconoscere che questo poema rimane
indissolubilmente legato a Fili di memorie sospese, d’altra parte
ne Il viaggio vengono chiariti e puntualizzati, rispetto al primo,
ulteriori tasselli biografici, ed essi vi prendono significati addizionali. Si
tratta qui di una sorta di rievocazione più agile, che scorre sospesa nelle
forme proprie della poesia, che se altro assume e altro tace, va a colmare
comunque il non ancora detto. L’evento comunica di sé con una vibrazione
diversa. Accanto agli episodi di vita vissuta, campeggia l’amore: le azioni sono
sostenute dal forte sentimento che lega i protagonisti, dal calore emotivo che
emana dai loro cuori, che li nutre e li anima giorno per giorno e che si
trasmette a chi li avvicina. L’impegno personale nella vita della famiglia, come
nelle rispettive carriere e nelle amicizie, permane vivo. La passione di fare il
bene viene trasferita nell’esistere di entrambi come coppia, ma anche nei figli
e nelle persone verso le quali questo sentimento si dirige. A tratti si
percepisce finanche la misericordia, sensibilissima umanità che sostiene e
restituisce alla vita, una dedizione dell’uno verso l’altro senza riserve, nei
momenti apicali che il destino oppone, o anche verso i bisognosi e gli afflitti.
L’esperienza sconvolgente dell’amore, che trasforma, ha
permesso sempre di operare le scelte giuste per il progresso dell’altro. La via
della felicità di Tita è passata veramente per la felicità di Enzo. E sotto il
mantello del loro entusiasmo si riavverte quel forte legame con la divinità che
si ha da bambini, destinato poi per lo più ad addormentare nell’appiattimento
quotidiano. La vita qui invece si risolleva e ci si sente in qualche modo più
forti e sereni.
È pur vero che esistere (di
per sé e in ogni caso) è comunque un’avventura straordinaria per ciascuno, ma ad
alcuni, irrimediabilmente indifferenti a ciò che li circonda, può non parere
tale. A molti altri può capitare una vita realmente avventurosa, pure non è
detto abbiano animo, pazienza, generosità di volerne fissare tappe salienti,
come anche particolari solo apparentemente “minori”. Per tutto ciò si è grati a
Tita Paternostro. Per aver voluto condividere con noi la sua straordinaria
testimonianza di “normalità”.
Per terminare non posso qui non ricordare altresì di
come il continuo viaggiare di Tita per l’Italia, lungi dall’essere mai subìto,
anzi, sempre vissuto con passione e massima attenzione verso ogni bellezza di
questa mirabile terra, aveva prodotto anche 77 sette meraviglie di
un’Italia Inconsueta, godibilissimo manuale didattico di geografia per
le scuole, da lei stessa illustrato, edito nel 1985 da “Nuove Esperienze” di
Pistoia; la consapevolezza maturata nel tempo della mai sufficientemente
riconosciuta potenzialità delle donne, sempre per la stessa editrice, nel 1989
aveva portato alla stampa di La donna, tante donne, una sorta di
ricchissimo excursus dalle origini della Storia ad oggi, dell’essere femminile,
che ne riprende attività, costumi e reale valore, spesso dimenticato o
trascurato attraverso i secoli.
La sua quarantennale attività didattica nelle scuole del
nostro Paese, infine, ha prodotto negli anni alcune notevoli pubblicazioni di
carattere pedagogico.
Queste ultime citazioni non solo per ribadire la
poliedricità di questo personaggio, ma soprattutto, per sottolineare un elemento
di raro valore per la società: quel suo peculiare, inesauribile atteggiamento di
meraviglia verso la vita che ella sa comunicare attraverso la sua scrittura
fresca e immediata. È l’entusiasmo che sempre trionfa e stupisce: “Se avessi una
seconda vita / rifarei le stesse medesime scelte” e ancora, sulle memorie che
gli oggetti seguitano a rimandare: “Parole rapprese / in uno spazio di tempo /
mormorano / come neve al sole d’aprile./ Le ascolto / con gli occhi fissi / sul
prismatico raggiare delle mie gioie./ Le mani si allungano / sul velluto nero
che le contiene”.
A suggello di quanto detto pongo questi emblematici
versi di Tita ancora estrapolati da Il viaggo”: “La poesia fatta
di respiri / di soffi di parole / ama le sue storie / mostra attenzione amorosa
per la vita./ Questo ed altro dico alla creatura” e, ricordando la nascita del
secondo figlio, il 18 marzo del ’58: “È difficile contenere il mondo…ma in tutto
c’è la grazia”, questo ha presto compreso Tita e lo scrive nelle prime pagine
del suo “viaggio” sapientemente ricreandola, anche per tutti noi, affinché mai
debba estinguersi.
Padova, luglio 2007
| |
 |
Materiale |
|