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Prefazione a
Dove l’Altissimo
di Giovanni Viel

la Scheda del libro

Lucia Gaddo Zanovello

Parlare di Giovanni Viel è facile per l’immediata umanità del personaggio, scevra di ogni possibile infingimento, fosse pure il più giustificato dalle circostanze, ma è insieme complesso: non si tratta infatti solo di disquisire del fine poeta d’animo gentile, profondamente innamorato della montagna, di cui è stato a lungo scalatore (fin da bambino!) e visitatore ed esploratore instancabile, o dell’uomo sempre attento alle piccole cose della vita, agli infiniti miracoli della natura, in particolar modo quella del bosco e dei vasti prati erbosi o dei nudi pendii rocciosi (dove sa ritrovare i luoghi dell’erica e delle stelle alpine), ma si deve tener conto anche dell’acerbo fustigatore delle quotidiane ingiustizie verso i più deboli e degli indifferenti o refrattari (sempre troppo numerosi) all’arte, che egli ama invece in tutte le sue forme con la medesima appassionata intensità.

Più ancora poi, e principalmente, egli rimane, da sempre e per principio radicatissimo, incrollabile e diuturno accusatore dei mali e delle atrocità di ogni guerra.

Giovanni Viel è altresì valido scrittore, in prosa, di racconti e di articoli giornalistici, pure di taglio sportivo (grandissima la sua passione per il rugby, esemplare ne è il testo raccolto, a questo proposito, anche nella presente pubblicazione), ottimo e apprezzato fotografo e, non da ultimo, notevole pittore.

Del suo essere 'artista' a tutto tondo fa fede la sua stessa vita, che nulla ha avuto mai di banale nella quotidiana attualità, come nei suoi trascorsi, quando è stato fanciullo spericolato nella montagna bellunese, con un’inventiva nel cacciarsi nei guai in tempi di guerra e anche in quelli di pace, da fare invidia a un autentico giamburrasca, rischiando, in più di qualche occasione pure la pelle.

È, dicevo, valente pittore, ma benché nel passato abbia dipinto a lungo anche a olio e si possa dire che nel corso dei suoi studi specialistici e della sua ricerca pittorica, abbia provato tutte le tecniche tradizionali, non disdegnando di arricchire la sua esperienza anche con la sperimentazione, oggi, tuttavia, egli non è pittore comunemente inteso: quasi mai usa pennelli o altri strumenti convenzionali e non opera logisticamente in un luogo deputato preciso; egli, infatti, che pure mantiene la sua residenza ufficiale nell’annosa, prediletta casa di Tisoi, nel Bellunese, accetta volentieri l’ospitalità di amici cari, che se lo contendono, prediligendo, in tali occasioni, luoghi da dove possano essere raggiunti facilmente sacri eremi, camposanti (per lui luoghi privilegiati dell’anima) sperduti, di piccoli paesi o monumentali, di più grandi città, sacrari militari, mostre d’arte, paesi storici o d’antico folklore. In tali località egli trascorre spesso lunghe permanenze; a volte si trova a soggiornare anche in abitazioni ricavate in antichi teatri dismessi o, esperienze a lui graditissime, in veri luoghi dello Spirito, come i monasteri. Pertanto, il Nostro si organizza viaggiando ovunque supportato da un suo armamentario minimalista, composto dall’inseparabile astuccetto a cerniera-lampo, che contiene matita, biro, qualche pennarello, un po’ di china e, sul supporto che talvolta il puro caso gli mette a disposizione, traccia i suoi originalissimi segni, sempre molto decisi e definiti.

Inquieto per natura, nei suoi momenti di maggiore tensione emotiva, Giovanni Viel, munito del suo piccolissimo necessario, con un sol tratto sicuro delinea figure talora stilizzate; ma anche se l’essenziale del reale, soprattutto il ‘carattere’ del soggetto, della scena o l’interiorità dell’evento da trasporre, appaioni sintetizzati, essi risultano tuttavia fedeli e nitidi.

Poi egli riempie magari solo alcuni spazi strategici, individuati spesso strada facendo nell’opera che prende forma e significato, con puntolini neri o colorati, disposti con accanimento quasi maniacale (vi può impiegare nottate intere), oppure con una parte appena accennata di colore diluitissimo, steso semplicemente coi polpastrelli delle dita. Rosso o aranciato, vivo o diluito, sfumature di tonalità cromatiche ottenute lungamente ‘tirando’ quello di base insieme ad altri colori; e poi ocra, nero, molto grigio, o blu slavato, poco verde e giallo, il tutto su cartoncino sottile o su fogli di carta da disegno ritagliati per dimensioni medio-piccole. Più spesso, come ricordavo, su quel che capita; talora diventano improbabili supporti improvvisati il retro del ritaglio di qualche confezione commerciale, come avviene ad esempio per l’opera riprodotta nella copertina di questo libro, quasi che solo disegnando, senza indugi, su quel che trova sottomano, la sua vista si facesse più acuta.

Brutalmente sincero, anche con se stesso, gode solo allora di una libertà che può sconfinare, impunita, nell’anarchia, come valore dell’emozione vera, eternizzata sulla carta sotto forma di tratti, intensità di colore, o di parole, nel caso anche, di certa sua poesia.

L’intensità dello stile di Giovanni Viel rivela la forza di una giovinezza tanto esplosiva quanto pensosa, che l’età non spegne, ma piuttosto accentua, in un farsi carne viva che non rimargina, da qui una certa impronta di comportamento dell’uomo, a volte, reiteratamente ribelle.

L'insieme talora può avere, solitamente nelle produzioni di più ridotte dimensioni e colorate, un aspetto quasi di sottililissimo smalto o di disegno acquerellato misto a grafica, una 'tecnica mista', assolutamente singolare e vivida nel significato suggestivo.

Emergono immagini prodotte da una sensibilità ferita dal sentire su di sé un’umanità che soffre, un dolore continuamente rinnovato nel ricordo, inestinguibile nei luoghi che hanno visto, vissuto, assorbito sudore e sangue di corpi o ceneri, miseri resti umani sfigurati da una violenza che sèguita a serpeggiare malefica sulla terra, un pensiero-visione, che inizia a graffiare coi tratti di penna o di matita.

C’è da ricordare inoltre che numerose originalissime copertine di libri sono state realizzate da Giovanni Viel proprio per produzioni letterarie della FN o per copertine di libri dello scrittore Luciano Nanni.

Il nostro autore, credo, non ha allestito mai mostre personali vere e proprie, egli ha provveduto solo a qualche eccezionale e forse fin troppo riduttivo inserimento di alcuni suoi lavori in numerose mostre collettive (circa un’ottantina).

Ma sarebbe arduo iniziare a farlo ora, dato che Giovanni Viel tende a dar via e a regalare quasi tutto ciò che produce a chi egli incontra, a chi gli vuol bene, a chi ha avuto l'onore di ospitarlo anche per brevissimo tempo o a coloro verso i quali egli si ritiene minimamente debitore per attenzioni ricevute in caso di problemi di salute.

È difficile stabilire quante svariate centinaia di sue opere siano sparse in tutto il mondo, dato che con il Coro La Valle, del quale è stato membro per una vita intera nella categoria di tenore primo, ha compiuto tournée in Europa e oltreoceano ed anche con l'Associazione "Bellunesi nel Mondo" tramite la quale ha stabilito relazioni ovunque. Ecco un'altra non contestabile realtà di questo personaggio: egli ha davvero centinaia di buoni amici, sparsi in ogni luogo.

E dovunque si trovi, egli ama scrivere lunghe lettere. Il suo necessario ‘restare in contatto’ con gli amici più cari è fatto di missive e cartoline mai banalmente acquistate in luoghi convenzionali con immagini rituali e contemporanee, ma spesso accuratamente ricercate nei mercatini rionali dell’antiquariato, che ama frequentare, per personalizzare l’invio a seconda del destinatario, per ‘ripescare’ dal passato squarci di gioventù, o semi ancora rigogliosi di quel buon tempo antico, che non ha smesso di parlare ad un presente fatto di tanta superficialità, di una tecnologia esasperata, che a volte egli avverte come nemica dei grandi valori umani, oggi spesso così asfittici.

Tutto questo doveva essere detto, altrimenti non si capirebbe appieno questo singolare personaggio del nostro tempo; ma in questa silloge, prevalentemente poetica, anche se riporta sei opere grafiche del nostro autore, si dovrà dire soprattutto della sua poesia, la quale non può che essere come lui: decisa, veemente, quando di denuncia, scritta di getto, senza ripensamenti, rivelatrice di amore e di amicizia sinceri, dove la partecipazione emotiva alla sofferenza dei propri simili risulta tanto autentica quanto piena e lacerante.

Innumerevoli sono i testi scritti, e qui non sarebbe possibile riportarli tutti, a ricordo, in morte, di amici, persone care o semplicemente entrate in occasionale empatia con lui, talvolta avvertendone il soffio vitale in un camposanto: uno dei luoghi privilegiati del Nostro, come dicevo, per il silenzio, per tutto ciò che egli percepisce in un dialogo d’anime, che all’improvviso s’innesca e sùbito s’intreccia.

Pellegrinaggi frequenti, quelli di Giovanni, nei cimiteri, dai quali ricava messaggi veri e profondi, come per Isola di S. Michele, dove, accanto a suggestioni musicali, architettoniche e letterarie di tono eroico, si imbatte nelle sepolture dell’equipaggio del sottomarino italiano affondato a Pola il 6 agosto del 1928, o in Ponte San Lorenzo, sulla strada di Cima Grappa, dove l’autore colloquia con le anime delle schiere di giovani periti nel massacro del 15 giugno 1918: “… abbiamo le unghie con le radici / sin sotto le rocce…” e più avanti: “…le ossa son pietre / ma siamo sempre qui terra e sangue / uniti…/ non abbiamo lasciato le posizioni…”

L’elegia alla madre A mia madre, collocata significativamente in chiusura di questo libro, è quasi un testamento spirituale ‘…aprimi la porta di quella soglia /…non temo nessuna pena./…Troverai un grande sorriso / “ e, soprattutto: “- il dolore è cambiato in amore -/”. Questo testo, che appare stampato una prima volta nell’antologia Poeti Padovani del 1998 (a cura del Gruppo letterario Formica Nera, alla pagina 81), con il titolo Alla Madre Celeste e dove la nota critica di L. Nanni chiariva che l’autore pensava a un’immagine della Madonna per trent’anni rimasta chiusa in una casa di Muda Maè (Longarone) salvatasi dalla tragedia del 9-X-1963, si ritrova ristampata, successivamente, con la sola variante del titolo: A mia madre, alla pagina 71 dell’antologia Poeti Padovani del 2002; nella nota a margine, lo stesso L. Nanni ravvisava proprio nel passaggio dal ‘dolore in amore’ come la figura peculiare della madre, in un certo senso ora divinizzata, divenisse ‘punto centrale di un'altra vita’.

Forse nella figura materna della Madonna ogni madre si con-fonde.

L’impeto e l’ardore di Giovanni Viel possono essere avvertiti anche nell’intensità della battitura esercitata sul foglio di carta con la sua vecchia macchina per scrivere, effetto ora irrimediabilmente destituito dalla piatta, impersonale formattazione della scrittura elettronica; per questo si è scelto di riportare, nella sezione del libro dedicata alla serie di quattro fogli di cartoncino colorato, vergati di getto a pennarello, prodotti sull’onda emotiva della sua prima visita all’Auschwitz Memorial insieme al Coro La Valle, accanto alle immagini originarie del tempo, la riproduzione fotografica oltre che dei suddetti fogli da disegno, anche del testo dattiloscritto con l’amata Olivetti del 1938, appartenuta al padre dell’autore, completo delle sue note personali, da lui stesso datate. Nella peculiare imperfezione del carattere della battuta, la presa diretta con l’autore; i diversi martelletti, nel tempo, hanno assunto una piega particolare per ciascuna lettera, ormai personalizzata, fino all’ombreggiatura, allo sdoppiamento, a causa dell’usura della meccanica dei tasti della sua fedele MP1, e per l’irruente personalità dello scrittore, percepibile anche dalle sue sbrigative correzioni; si è così preferito, talora, ‘rilevare’ il tutto con qualità fotografica, piuttosto che ‘falsarlo’ attraverso un’anonima trascrittura, spogliata di questa ricchezza espressiva.

Con analogo criterio si è data preferenza alla spontaneità della pronuncia delle citazioni in lingua straniera.

Non tanto la semplicità di rare metafore, delle trascrizioni letterali delle parlate slavizzate, si avverte in ‘Non capisco’, ma soprattutto il lacerante dolore senza scopo, della tragica ritirata di Russia, da parte delle nostre truppe composte di giovani figli, mariti, padri tenerissimi, che lasciarono in Patria orfani, famiglie decapitate o irrimediabilmente smembrate.

Nella splendida ‘Ballata dell’Ortigara’, le pietre, il rododendro, il vento, rimandano i richiami dei morti, ‘risorti’ al consapevole passare di Giovanni, che calca adagio quei luoghi sacri, carico di fraterna ‘pietas’, come fossero un immenso monumento al dolore; suoni e voci che crudamente descrivono l’orrore di quanto accaduto, rimasto tanto integro nell’aria che si respira, quanto incompiuto, perché ingiusto.

Bisognerebbe sentirla leggere dall’autore, questa ‘Ballata’, come ci è accaduto nel corso di una pubblica presentazione: esperienza forte, indimenticabile, l’ascolto dei versi solidamente ritmati, incalzanti, nella lenta, staccata cadenza, recitati dalla sua ruvida voce, in tal caso baritonale, piena della stessa intensità che si ritrova in tante opere pittoriche, nel realismo crudo dei versi sinteticamente descrittivi, dove la sua partecipazione è tanto totalizzante quanto aspra.

Nella seconda sezione del libro sono riportati alcuni testi, nel tempo antologizzati (si contano a centinaia le presenze del Nostro in molte antologie a tematica diversa), determinanti per avere una dimensione più completa della personalità dell’autore.

Vi si ritrovano alcune fondamentali tematiche e molti accenti tipici anche della prima parte, come il sentimento della malinconia per coloro che ci lasciano, per una vita che inizia a scendere la china e il tema della visione anticipata della propria morte; essi appaiono, si vedano le date originarie dei testi, già in tempi in cui l’autore è ancora relativamente giovane. Ma si incontrano anche scritti più lievi e gioiosi, come in Paesaggio, “… incomparabile / in questa tavolozza / meravigliosa / nel silenzio / d’ogni cosa…” e più avanti si percepiscono “…il canto della fonte / il fumo dei camini…” che descrivono la sua amata Tisoi, dal poeta definita, nell’ultimo verso, ‘meraviglia del mattino’; ne Il ciabattino delle fate, “…danzano le fate / con piedini ricoperti / da calzari splendenti”; lo stupefacente scintillío delle crode inerpicate verso il cielo, abbaglia ne La s’ciara de oro, canzone felice scritta da Giovanni, che celebra l’antica leggenda valligiana che lega a San Martino il simbolo della fedeltà racchiuso nell’anello nuziale e nell’altra, qui riportata, fra le tante canzoni da lui scritte, la splendida Chiesetta alpina, un autentico gioiellino di parole e musica in cui, sulle note di Mario Solinas, il poeta raccoglie insieme all’armonia del paesaggio alpino, l’amore di Dio per l’umanità che soffre e spera avvolta nella freschezza del ‘canto eterno della montagna’, composto dall’irruenza pura del vento e dallo scroscio generoso dell’acqua delle fonti sorgive dalle nevi.

E se pure nella vita quotidiana, chiusa nelle nostre case egli afferma: “Calendari sui muri / inghiottono i giorni…una radio ‘gracchia’ canti senza senso…”, in Strada di vita dichiara: “Vedo il male / della terra./ Odo gemiti / grida e palpiti”, in Volare, Giovanni Viel mostra di non scoraggiarsi mai. Certamente questo avviene per la sua personalità energica e per il suo vissuto così intenso, ma anche grazie alla sua peculiare, intima ispirazione mistica, alla sua palpitante religiosità, al sentimento spirituale ed eterno della bellezza della vita, che mai lo abbandona; elementi chiave, tutti questi, basilari fondamenti del suo modo di essere, dei quali tutta la sua produzione poetica e pittorica si trova intrisa.

Il profumo e la trasparenza dell’aria della montagna, la limpidezza delle sue sorgenti, l’innocenza del colore del cielo, che ci ritornano vivissimi e fedeli dai suoi versi, insieme alla testimonianza dell’impegno civile, che resta gagliardo, e alla sensibilità musicale che tutto permea ancora e sempre il presente, sono accolti in un crogiolo fecondo di ardore, consapevolezza e tanto indomito fervore che forse possono trovare interpretazione nella convinta e grata adesione a quella pagina del Vangelo di Matteo (11, 28-30), che recita: “Venite a me voi tutti che siete esausti ed oppressi, ed io vi farò riposare”.

20 febbraio 2011

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