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Chi condivida con Giorgina Busca Gernetti (come modestamente chi scrive) una passione, sempre unita anche a studio "matto e disperatissimo" (il Recanatese sorride – per quanto gli è possibile – dalla nuvoletta, certo pura immagine-simbolo) per gli studi classici, coltivati non solo al liceo, all'università, insegnando, scrivendo, ricercando, non può non condividerne anche la produzione poetica, certo esplicantesi nelle differenze, tipiche di ogni creazione poetica e letteraria (ma, se andiamo all'ètimo, tra i due livelli non c'è separazione, essendo la poesia in primis creazione, al di là della forma espressiva, del genere letterario in cui si esplica, per cui paradossalmente potremmo considerare gli scritti di Einstein, Heisenberg, Prygogine, Thom, testi anche, in qualche misura, "poetici").
Un mondo di sogno, che però non fa dimenticare la realtà dell'orrore, "l'Inferno delle tenebre" (un sintagma che in un grande scrittore-ex uomo politico spagnolo designava l'Urss, ma che si può estendere a tante realtà, dal nazismo al comunismo cambogiano e non solo, alla rimozione del massacro armeno, perpetrato dalla Turchia ma "coperto" dagli "Imperi centrali" all'inizio dello scorso secolo). Ecco allora poesie d'amore, per l'Assoluto come per persone umane concrete (e come peraltro amare Dio senza amare i fratelli, in ogni accezione del termine, San Giovanni Apostolo docet), per la natura, per ogni "battito d'ali", per usare un'immagine, anche metaforica, oggi forse abusata ma sempre pregnante. Ma evocare la natura, appunto per il "classicista", non può non voler dire ritrovare i paralleli continui con l'oggi, specie se abbiamo avuto, già da discenti, docenti che ci abbiano motivato a questo, specie, soprattutto, se, da noi, abbiamo ritrovato la furia devastante, il sacro fuoco di una ricerca che, senza bisogno di "Macchine del tempo" da lasciare magari a H.G.Wells o a William Gibson, per cui le guerre e gli orrori dell'antichità ci rimandano, seppure in forma molto minore, le stragi degli innocenti d'oggi (qui, in questa raccolta, la Shoah, le stragi iraquene, la memoria "infossata" delle foibe), dove però, per l'appunto, il mondo classico, in specie greco, rimane ancora "terra incognita" per l'orrore vero e proprio, non a caso quel referente ideale cui si può guardare oggi come dimensione almeno relativamente utopica, come "scopo-fine-ritorno-che sappia orientare il futuro". Non a caso, tale tèlos era quello di Hoelderlin, di Nerval, di Byron, ossia dei grandi romantici europei, ma anche, nel 1900, di pensatori così distanti tra loro come Herbert Marcuse da un lato, René Guenon e Julius Evola dall'altro. Un tèlos che non fa dimenticare alla poetessa di cui in primis parliamo la dimensione cristica e soteriologica dell'Angelo, dell'annunciatore (questo, come noto, l'ètimo), che, di origine babilonese, nell'Antico e nel Nuovo Testamento, viene invece trasfuso con ben nuova linfa, con un segno ben diverso... Ma, non ci sembra qui il caso se non di limitarci ad accennare all'efficacia della sintesi tra Annuncio | Evangelo e il mondo dell'equilibrio armonico, emblematizzato dai Greci antichi, pur nella coscienza storica del fatto che la pòlis ateniese comunque non fosse il "migliore dei mondi possibili" (esclusione delle donne, dei meteci, dei non Greci, della democrazia comunque ultra-limitata, dove però non credo non possano sorgere dubbi sui limiti della società democratica attuale, dagli States all'Italia, tra intrighi e sciocche cariche all'arma bianca e ai furori non eroici dei più vari colori...). Converrà, invece, dire dello stile, della pregnanza classica, metricamente-musicalmente dosata con "perfezione" della poetessa; "Anche tu sorgi, Selène, dal mare, | falce dorata rorida di perle | stillanti, inargentate | dal tuo raggio che s'adagia nell'acqua | cupa e serena sul far della notte. || Anadiomène, t'innalzi nel cielo | pura, pacata, casta | diva della notte. Tu fra le stelle | già chiare e preziose vaghi volubile, | sempre diversa nel volto lucente. || Falce d'oro ti mostri in questa pace | stillando salse gocce, | nuova Afrodite ch'emerge dall'onda | nella candida schiuma di Citéra | Notte d'amore veglia la tua luce. || Bella Selène, diva Anadiomène, | tacita ascolti del mare la voce | che mormora sul lido, | la mia voce silente che confida | all'amica fedele le sue pene" (“Anadiomène”). Inutile qui una parafrasi, che sarebbe pletorica per il lettore "scaltrito in poesia" e comunque esperto d'analisi del testo: basterà rilevare, invece, come i fonosimbolismi, le allitterazioni, le assonanze e consonanze (altrove le anafore), l'incedere (oserei dire il ductus, beninteso senza alcuna reductio prosastica, anzi) metricamente classico, che comporta la brevitas e gli accenti, ovviamente non marcati come nella metrica greco-latina (una trasposizione sic et simplicter sarebbe comunque impossibile, non lo è invece una ri/creazione) siano anche e soprattutto vettori di un'impressione provata indelebile e di una nuova bellezza ritrovata, dopo la stagione degli orrori, che comunque passa sempre "sul secondo canale" (Léo Ferrè), che comunque segna come una sorta di basso continuo il mondo dell'informazione disinformante-massificante, con tanto di spot d'intervallo, gossip inframmezzato etc... Ma ciò, ancora una volta, ci porterebbe "fuori dal seminato" (Credi davvero? mi fa segno Ferré dalla nuvoletta...). Concluderò accennando al fatto (ma non solo) geografico-storico: come ha teorizzato Carlo Dionisotti, ma aveva intuito già vari decenni prima Luigi Baldacci, esiste una "geografia della letteratura" fondamentale, per ri-sentire, ri-trovare i luoghi ("del delitto", si direbbe, ma ciò può valere per chi scrive, con suo orribile humor sulfureo, non per un'anima pura quale quella della poetessa). Ecco la poesia "Piacenza", in cui tutto ciò ri-emerge: la poetessa, piacentina, da anni vive a Gallarate ma rivede la sua patria anche solo "in sogno", quando non vi ci si reca materialmente. Chi conosca (chi scrive non benissimo) quella città non grande, industriosa ma mai immemore del suo passato, più lombarda che emiliana o meglio emiliana del Nord, tra due fuochi, con un curioso "dialetto di frontiera", sa di che cosa parlo. D'accordo sulla comune appartenza padana, sulla confluenza di elementi gallo-italici, etruschi, villanoviani, romani, longobardi, ma le alchimie sono comunque sempre capaci di garantire le diversità, le specificità... |
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