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La follia delle parole nel Seicento e Novecento.
Antiche e nuove forme di
comunicazione verbo-visiva
Un viaggio, questo libro
di Anna Pessina, affascinante e desueto: quello della lingua, della parola, in
pianeti diversi, luoghi letterari e non, luoghi istituzionali, quelli della
politica ad esempio, e della strada, piena di parlanti e creatori di parole,
quasi al pari di scrittori e poeti, anche se si tratta di parole di tipo
diverso. Parole destinate comunque ad influire sull’universo letterario, per
troppi secoli rimasto in qualche modo incorrotto e privilegiato. L’Italia,
infatti, forse anche per la sua lunga storia di frammentazione politica e
linguistica, ha sicuramente costituito un caso anomalo rispetto al resto
dell’Europa, in quanto, mai come nella nostra terra, la frattura tra
intellettuali e popolo è stata così forte e soprattutto lunga. Dopo Dante,
infatti, forse, come dice Francesco D’Episcopo, ultimo poeta “popolare”, che
scrive per tutti, e grande sperimentatore di linguaggi aulici e volgari, nel
senso più nobile del termine; dopo Dante, i nostri letterati si rinchiudono nei
palazzi dei signori e nelle accademie, scrivendo per pochi, senza lasciarsi
contaminare dalla realtà, che fuori dal mondo dorato dei palazzi continuava a
camminare e a inventare altri linguaggi. Un riflesso di questi ultimi
sicuramente trova posto nelle pagine di scrittori alternativi, dialettali e
popolari.
In realtà, anche quando
la letteratura mette prima un piede e poi tutti e due fuori dai luoghi
istituzionali e torna a “sporcarsi” con la società in continua evoluzione, non
mancherà mai, nemmeno oggi, nel nostro Paese, uno zoccolo duro, irriducibile,
quello dei puristi ad oltranza, quelli che la Pessina chiama con grande
efficacia “passatisti, cariatidi di un linguaggio datato e stereotipato”, che
rifiutano a priori contaminazioni e novità, nell’anacronistico sogno, o
meglio mito, di salvaguardare una lingua pura, espressione di una nazione,
proprio quando un discorso nazionale sembra ormai per molti versi avviato al
declino per trasformarsi in un più dilatato e libero discorso internazionale,
globale.
Proprio di questo
argomento: dell’inevitabile trasformazione della società, sia che si tratti di
evoluzione o, per certi tratti, di involuzione, e quindi della lingua, tratta
uno dei saggi, che compongono questo libro di Anna Pessina, dedicato
all’italiano, meglio al neo-italiano, negli anni a noi vicinissimi e familiari,
almeno per una certa generazione, ottanta-novanta. Praticamente parliamo
dell’ultima tratta di questo affascinante viaggio della parola, che però
ovviamente continua…
Il saggio in questione
sollecita diverse riflessioni: la prima delle quali riguarda proprio la
coscienza, che molti nostri grandi poeti hanno avvertito, di una dinamicità
della lingua, che, lungi dall’essere un sistema chiuso, una “lingua-fossile”,
come dice la Pessina, proprio in virtù di quello stretto legame con una società
in cammino costante, non può fare a meno di riciclarsi, trasformarsi, perfino
“impazzire”, come ci suggerisce il titolo, concordato con il prefatore del
libro. Il discorso offre il fianco ad una riflessione di ordine storico, che
richiama in causa proprio quelle “cariatidi”, i puristi, di cui abbiamo parlato
poc’anzi. Probabilmente queste cariatidi, convinte che si possa fermare la
storia, magari rimandando a casa gli extra comunitari che affollano le nostre
contrade, dimenticano che proprio la storia insegna che anche le più antiche
civiltà si sono formate grazie ad imponenti movimenti migratori di popoli
indoeuropei o cosiddetti barbari, alla ricerca di plaghe fertili da conquistare,
e che la razza pura e, di conseguenza, la lingua pura non è praticamente mai
esistita. Nessun popolo, del resto, più di quello italiano sa bene di essere il
prodotto di incroci razziali secolari, dovuti a conquiste, alla formazione di
imperi, come quello romano decisamente multirazziale, e ancora il fenomeno viene
reclamato, denunciato come proprio dei nostri tempi. Ognuno di questi incroci
con longobardi, normanni, spagnoli, arabi, francesi, per citarne solo alcuni, ha
dato vita a nuovi linguaggi, a una nuova koiné, fiorita per l’innesto di
nuovi apporti.
Il saggio della Pessina,
proprio per questa coscienza, non scinde mai il discorso sociale da quello
linguistico ed è proprio con questa coscienza e con spirito aperto che nel
cambiamento contemporaneo l’autrice legge i segni di “istanze di ammodernamento
e di democratizzazione” ed entra nell’universo contemporaneo degli anni 80-90. E
ci entra con passo leggero, con la disinvoltura e l’ironia che non solo non
appesantisce l’ingresso nelle stanze dell’imprenditoria, delle multinazionali,
della finanza, della politica, della pubblicità prima e del fantasmagorico,
colorato mondo giovanile poi. Ci induce così spesso a sorridere dinanzi al
profluvio di parole, di espressioni nuove, strane, stravaganti, bizzarre, che
negli ultimi decenni ci siamo abituati, sia pure a piccoli sorsi, a trangugiare
dai telegiornali, dalle trasmissioni televisive, specie nei talk-swov,
dalle aule scolastiche, per color che, come me e come l’autrice, sono o sono
state insegnanti di giovani, esposti a tutte le tentazioni linguistiche
possibili.
Dunque, molte di queste
espressioni le conosciamo, ma vedercele riversare addosso così, tutte assieme
appassionatamente, con le trasformazioni sociali e politiche che le hanno
accompagnate e che l’autrice ha il merito di storicizzare puntualmente, si prova
una ben altra sensazione. Sembra così quasi di trovarsi in un mondo-teatro, un
teatro d’avanguardia, un laboratorio sperimentale, che congiunge magicamente, o
all’impazzata, sempre come suggerisce il titolo, parole, significati, suoni in
piena libertà inventiva. Solo per fare qualche esempio: dagli apporti stranieri:
stick, shopping, walkman, weekend, welfare,
outlet, vintage, ecc.; dal mondo dell’imprenditoria:
faccendieri, monetaristi, azionista di riferimento ed altro;
dal mondo del lavoro, o sarebbe meglio dire del non lavoro, oltre al
disoccupato, di antica memoria, arriva l’inoccupato o, viene in mente l’esodato,
di nuovo conio. Infine il mondo politico e giudiziario, sicuramente quello che
ci ha abituato alle espressioni più particolari, a partire dagli anni ’80:
giustificazionismo, perdonismo, pentitismo, tangentopoli,
ma ricordiamo le convergenze parallele? Poi ci sarebbe il linguaggio
giovanile, quello degli anni ’80, riportato dall’autrice. Leggiamone qualche
stralcio:
Apre la sfilata Gianni
Agnelli (Lawrence d’Arabia, il libico, un torinese a Tripoli); Susanna
Agnelli (Argentario, vestitino alla marinara); Giorgio Albertazzi (un
radicale in cerca d’autore); Giulio Andreotti (il gobbo più dritto
d’Italia); Oriana Fallaci (la svitata speciale); Frate Eligio (river-frate,
monaco amico, abatone, cardinale); Gheddafi (quello della Fiat, il
petroliere, Gheddafik); Mariangela Melato (la metallurgica); Rita
Pavone (lilliput) (p. 150).
In aggiunta, a me viene
in mente un termine che sento tante volte il un giorno: prof. invece
dell’ormai desueto professoressa. Questo solo per fare qualche esempio.
Si ha insomma la
sensazione di ascoltare una parola umanizzata, con un’anima, che, a lungo
rinchiusa in una turris eburnea, come aveva voluto l’arte borghese, una
volta fuori, ami sentirsi docile, duttile, spugnosa alle nuove istanze, siano
esse tecnologiche o imprenditoriali; curiosa di novità, siano essi gli apporti
delle lingue anglosassoni o extracomunitarie.
In uno dei paragrafi di
questo saggio che dire frizzante è dir poco, la Pessina chiama in causa uno
scrittore, Pasolini, rendendolo testimone, coscienza critica di un cambiamento
linguistico epocale. Come spesso accade specie per i grandi intellettuali, i
grandi scrittori, profeti disarmati (mi viene in mente a riguardo il titolo
significativo di un testo di Francesco Bruno: Profeti disarmati),
Pasolini è stato profeta di questa straordinaria mutazione. Leggiamone le
parole:
È nata una nuova lingua
italiana, quella della borghesia tecnologica. D’ora in poi alla guida della
lingua non sarà più la letteratura, ma la tecnica. Quindi il fine della lingua
rientrerà nel ciclo produzione-consenso, dando all’italiano quella spinta
rivoluzionaria che sarà appunto il prevalere del fine comunicativo su quello
espressivo… Sotto l’influenza unificatrice delle grandi aziende del Nord il
linguaggio della tecnica invaderà il lessico, la forza dei dialetti si spegnerà,
il latino finirà di influenzare le nostre strutture sintattiche, la lingua
parlata subirà una profonda evoluzione (p. 158).
Una vera profezia! Tempi
duri per le cariatidi, arroccate al passato. Dice l’autrice: “Caduto l’obsoleto
criterio che ne faceva alchimia da tavolino, la lingua reagisce in maniera
trasgressiva al monumento dell’accademia”.
Quella che emerge dalla
lettura accattivante di questo spicchio di libro è una visione culturale
cosmopolita, di cara memoria illuministica, globalizzante, per usare un termine
di nuovo conio, comunque un’idea di una cultura democratica, viva, moderna, con
la quale Anna Gertrude Pessina si sente in buona sintonia, a dimostrazione che
la giovinezza non è un atto generazionale e che ogni donna, come la parola, che
del resto è femminile, è in grado di trasformarsi, rivestirsi di nuovi colori e
di nuove idee, di rimettersi in discussione e di ripartire da zero. E, a
proposito, se si riflette, la lingua, la poesia, la scrittura, l’arte sono tutte
parole e realtà di genere femminile, proprio come l’immagine di donna che Anna
Gertrude ha scelto per la copertina, un quadro di Beda Cornelis, una suonatrice
di flauto, che a piedi nudi, forse, mi piace immaginare, guarda oltre il suo
tempo, presagendo quello che le parole, sacre, laiche, poetiche, volgari
avrebbero saputo regalarci. C’è solo una condizione: la capacità di saper fare
nostro il panta rei, tutto scorre, di Eraclito.
E, allora, quale
conclusione trarne? Sulla scorta di questa lettura, dobbiamo fare nostra la
capacità di essere pronti ad accettare perfino le involuzioni, che sono comunque
e sempre cambiamenti, la parola che si fa anche portatrice di non valori, come
“la materia per la materia”, “l’edonismo occasionale”, il non senso, “la
disposizione a rincretinirsi in un effimero esodo”, sempre per citare le parole
efficaci della Pessina, nell’assoluta consapevolezza che la parola è, comunque e
sempre, l’anima, la voce, spesso il grido della vita, che scorre nel bene e nel
male, attraverso le epoche che, come noi esseri umani, si incontrano e si
scontrano. Una dichiarazione d’amore di una scrittrice, sempre così attenta alle
sperimentazioni e alle novità, per una parola trasgressiva, un po’ folle, come
possono essere solo le cose vive.
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Recensione |
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