La quercia
delle gazze
…Ma la ricerca delle
cose / sta nelle cose, / fino a che / scoppia / in stormi di anitre / la notte
decapitata.
Crivellata senza sosta, la parola s’accartoccia come foglia avvizzita,
agonizzante e, non cerca scampo, non si difende e non finge, non si veste né si
atteggia ed è continuamente destrutturata dall’originario archè. I brandelli
giacciono in un lacrimatoio mentre si aggruma nei semi del melograno, la
crocifissione di Prometeo come “necessario sacrilegio”.
“Se per vivere oh libertà / chiedi come cibo
la nostra carne / e per bere / vuoi il nostro sangue e le nostre lacrime te li
daremo. / Devi vivere”. Questo
scriveva Alexandros Panagulis e questo filo labirintico è quello che conduce
negli oscuri gironi della guerra ne “la Quercia delle gazze”.
La Grecia dei colonnelli se non la conoscessimo dai testi e dalle cronache
di storia è sintetizzata nelle note a fine testo con indicazioni e luoghi. Il
poeta è voce narrante di una ferita non rimarginabile dell’animo e del destino
dell’uomo, di un’inquietudine che corrode fino allo sfinimento l’armonia greca
la cui profanazione si incista come un tumore in una totale dissacrazione del
mito della bellezza. Essa era sogno d’immortalità, memoria, levigatezza e
compostezza, equilibrio e biancore. Tonalità quest’ultima che tende ora
all’oscurità, alla cecità, alla bruttezza, al mortalmente-mortale inteso come
finibile senza luce, come agonia che la bella Elena sconta sciogliendo
nell’oblio “il fiore della droga”, “donna bruciata / dal gioco degli dei”.
Non ha rinunciato Ruffilli a scrivere di quell’orrore e “lampeggiano di
falce / le parole taglienti / a stracciare / larghezze d’uomo, / dove la vita /
più spesso arresta intorno / e spacca / un sole / secco di polvere /…/ Rotola la
mola dei pensieri / sul responso / oscuro ed indistinto, che frantuma / dalle
pietre fossili / dei templi la nausea gialla delle mimose”.
L’evento drammatico assume nella poesia le tonalità frantumate di immagini
che si inseguono in un viaggio che “calcinato” accompagna dentro il male, la
superbia, le umane malvagità e si firma anche stavolta, anche allora, era il
’73, unica voce tesa a riedificare il grande altare della poesia. Essa nel suo
paradigma oscilla tra ricerca di purezza e un passato che granitico ancora
resiste alla lapidazione dei tempi e, se i fondali s’incrostano e velano
la trasparenza, di forte energia appare la statuarietà del Leone di Corfù che
vigila i sepolcri e “ balza oltre l’ombra”. È di Itaca il profilo
prosciugato dall’amore “il cinico che prende / seni d’ambrosia / senza
muovere un muscolo” sacrificato all’altare della “canoscenza” che
inquina “acque tiepide / fiorite di corallo” tanto che “squarcia
l’animo / la dissonanza / che interrompe i cieli”.
È questa la guerra, il massacro, i campi di tortura di Oropos? Forse, e il
poeta Ruffilli la indica incisivamente proprio in questa dissonanza, insanabile
dicotomia tra ragione e “immaginazione”, tematiche che tanto spazio lirico
avranno nelle opere dell’autore. E le statuette di Dypilon, stilizzati oracoli,
restano a raccontare dell’essenzialità della poesia, del suo servire a scuotere
i contenuti, del suo sofferto schermarsi dalla mitraglia per riuscire ancora ad
augurarsi che la parola”segni a fuoco / il legno secco della quercia”.
Paolo Ruffilli ha scritto questa silloge a vent’anni. Ed è proprio oggi che
essa andrebbe riletta: un canto di coraggio e libertà pieno di pietas e
compassione e dolore coniugati dalla nostalgia giovanile di “un’alba a Taso”
e la precoce consapevolezza che le oligarchie “dominano / macinando /
frantumi d’uomo”.
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