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Steve McCurry tutto il mondo nei clic

Steve McCurry è tra i grandi fotografi d’arte statunitensi viventi, James Nachtwey 73 anni fotoreporter, Eugene Richards 77 anni fotografo scrittore e regista, Elliott Romano Erwitt 93 anni fotografo pubblicitario e devoto al bianco e nero.

A seguito della mia visita alla mostra coneglianese, allestita dopo quelle di Napoli e Trento e in Sicilia, sono nate queste mie analisi ispirandomi alla lettura dell’intervista rilasciata da McCurry a Biba Giacchetti.

Un fotografo d’arte al quale piace parlare con affetto dell’Italia, dove, afferma che “il vivere bene e pienamente è la filosofia di vita in Italia. Il popolo italiano è nel mio cuore”.

Steve McCurry di Philadelphia, oggi superati i settant’anni. è ormai egli stesso l’icona impareggiabile della sua arte fotografica, del suo essere nomade impavido, sperduto tra le genti di ogni razza e d’indole non sempre conciliante e tra situazioni altamente a rischio per la sua stessa incolumità, laddove nessun reporter al mondo si animava d’andarci.

Le prime esperienze con i media locali lo incalzano a viaggiare e sceglie l’India e l’Afghanistan donde invia con successo le sue strabilianti immagini a riviste di prestigio, tra le quali il National Geographic del quale è considerato lo storico collaboratore.

Inviato speciale, poi, sui fronti di guerra, mai arretrandosi dalle prime linee, ottiene prestigiosi premi il cui apice è nel World Press Photo Awards; oggi membro dell’Agenzia Magnum.

E, parafrasandolo, è egli stesso a dire che “già il viaggiare, di là delle conoscenza e della cultura assorbite, mi dona gioia e incessante stimolo nel proseguire”.

Il suo momento magico è racchiuso nell’istantanea della giovane afghana Sharbat Gula (logo della mostra) della quale cattura sorprendentemente quegli occhi, quello sguardo che rapidamente s’insinuano in ogni contrada del pianeta. Lei era tra le tante bambine rifugiate, ospitate in un campo profughi di Peshawar in Pakistan e McCurry, nel chiedere l’autorizzazione a fotografarle, non poteva ancora immaginare che tra quelle foto ci sarebbe stata la sua grandezza: il ritratto di una bimba appartata in silenzio e che, voltandosi, alla vista dell’obiettivo lo fissa con quello sguardo tra stupore e una vena di timore; un lampo espressivo vissuto e catturato nell’istante di un clic.

Un secondo scatto che ha travalicato le frontiere è capitato in India nel villaggio di Portbandar, colpito da esondazione monsonica. McCurry afferma che la casualità può essere foriera di fondamentali risultati e qui scopre e riprende un vecchio sarto che attraversa le acque, immerso sino al collo, per salvare se stesso e l’arrugginita macchina per cucire, attrezzo vitale per il suo lavoro. Macchina e capo affiorano dalla superficie e il Nostro coglie l’attimo in cui l’uomo sorride scoprendosi fotografato: è gente queta sottoposta da sempre alle aggressioni climatiche e, pertanto, non può permettersi di perdersi d’animo.

Il ritratto ha un magnifico risvolto: apparso tra le pagine del National Geographic, è stato possibile rintracciare il misero sarto per donargli una nuova e moderna macchina.

La sua “ubiquità planetaria”, che rivive nell’omologismo dell’iconografia, gli fa scoprire talvolta comportamenti umani poco noti o addirittura ignorati; è il caso di una donna del Mali, in cui sul volto denudato alberga bellezza e dignità. Il racconto di questa immagine, però, possiede un retroscena singolare; qui sono gli uomini a velarsi il volto quale rimedio contro gli spiriti e, per l’uso permanente di turbanti impregnati di colore naturale azzurrognolo, il viso assume riflessi per i quali è nata la leggenda degli uomini di “razza blu”.

L’uomo e gli animali: la sequenza scorre con l’immagine di una mamma cambogiana assopita sulla sdraio assieme al figlioletto mentre intorno ad essi striscia indisturbato il loro serpente domestico; scorre con la scena thailandese di un cucciolone d’elefante che s’adagia indisturbato sul masso, appoggiando delicatamente il capo sulla schiena di un ragazzo quivi seduto e intento a leggere.

La foto scattata in Arabia durante la Guerra del Golfo, però, anche questa rivisitata in ogni continente, riprende il cormorano inzuppato di petrolio a seguito dell’esplosione bellica di ben seicento impianti.

La convivenza pacifica in sapore di sacralità con gli animali, uno status antico quanto l’umanità e che pareva indissolubile, qui appare metaforicamente smarrita.

Altamente esplicative le foto che si potrebbero definire “After Twin Towers” anche queste scattate per puro caso: McCurry era appena atterrato da una lunga permanenza professionale all’estero e dalla sua abitazione prossima alle torri ha avvertito la tragedia e, dopo avere ripreso le costruzioni in fiamme dal suo tetto, si è precipitato a ridosso dello scempio per fotografarlo, immortalando così scene da raccapriccio ma purtroppo documenti certificanti la storia.

La fede non può mancare dalla teoria delle immagini di Steve McCurry e nella Birmania buddhista si dirige a Kyaikto dove si erge un tempio sulla sommità di un immenso sasso roccioso che pare possa precipitare giù a valle da un momento all’altro. La suggestione è data dalle irradiazioni auree del sito procurate da milioni di foglie d’oro che i fedeli vi portano a mo’ di ex voto. “La casualità può essere foriera di fondamentali risultati” afferma l’artista e qui è capitato giusto in un tramonto dai colori stupefacenti irrorandovi l’effigie promuovendola, quindi, universale.

Ogni artista spera che una sua opera possa divenire universale; occorre però recepire il suggerimento di Steve McCurry sulla casualità, evento che premia pazienza e perseveranza.

4 marzo 2022

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